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FREDIANO MANZI/ Intervista choc: “Io, Milano, la ‘ndrangheta. E quel giorno maledetto.”

di Andrea Succi

La storia personale di Frediano Manzi – Presidente di “Sos Racket e Usura” – è lastricata di usurai, negozi bruciati, minacce di morte, omicidi di persone a lui vicine, inchieste scottanti, “come quella che ha portato all’arresto dell’ex Presidente del Comitato Nazionale Anti Racket, Carlo Ferrigno, un uomo potentissimo legato ai servizi segreti”. Fino a quel 26 gennaio 2011, quando la sua vita subisce un tremendo contraccolpo. Generato dal rimorso di aver commesso un (im)perdonabile errore.

È il Peppino Impastato della Lombardia. Ma per una serie di motivazioni, che in questa intervista ricostruiamo, ha “fatto una cazzata” che può costargli molto cara. Frediano Manzi è il pioniere dell’antimafia in Lombardia, soffre in trincea da molto prima che Saviano rivelasse al mondo la presenza della ‘ndrangheta nel nord Italia. Eppure, abbandonato dalle istituzioni, spaventato dalle continue minacce di morte – arrivate anche pubblicamente di fronte a giornalisti, forze dell’ordine e politici – il Presidente dell’Associazione “Sos Racket e Usura” è caduto in quella che potrebbe rivelarsi una trappola costruita ad arte: è di qualche giorno fa la notizia secondo cui Frediano Manzi ha confessato due auto-attentati contro sue attività.

La ragione di questo gesto scellerato? Molto probabilmente per defibrillare quel cordone di sicurezza attorno alla sua persona, che da (quasi) sempre è rimasto troppo allentato. “Non mi fido più dell’Arma dei Carabinieri”, è una delle frasi più tristi e sconvolgenti pronunciate da Manzi durante l’intervista. Ma i rari momenti di sconforto lasciano subito il passo ad un carattere fin troppo deciso, che rischia ogni giorno la morte (lo sa?) e che non vuole arretrare di un millimetro, nonostante la sua credibilità abbia ricevuto un colpo che potrebbe risultare fatale. Gli amici di un tempo, dai giornalisti ai “colleghi” della lotta alla mafia nel nord del Paese –Giulio Cavalli ed Emiliano Fiano, per dirne due – sono sconcertati e delusi.

Eppure tutti possono sbagliare, soprattutto se l’errore nasce in un contesto di altissima tensione, dove la solitudine è lacerante e dove la paura per i propri cari uccide gli ultimi barlumi di lucidità. E allora, per capire la sua storia, partiamo dall’inizio, da quando “a Milano gestivo oltre 10 chioschi di fiori.”

 

I migliori punti vendita della città, si dice.

Confermo. Compravo la merce da alcuni grossisti con precedenti penali, il cui scopo era entrare in possesso delle mie attività, mandandomi in mano agli usurai. Quando compresi questo sistema e rifiutai il loro ingresso nelle mie attività, nel giro di una settimana mi furono incendiati cinque negozi. Fui costretto a chiudere tutto ma dopo sei mesi decisi di denunciarli.

E non ti fermasti solo ai grossisti.

Infatti. Parlai anche della collusione tra questi pregiudicati ed alcuni esponenti politici del comune di Milano. Furono arrestati otto funzionari di Palazzo Marino (sede del Comune, ndr) e 39 vigili urbani, nell’ambito dell’operazione che decimò l’Annonaria, perché prendevano mazzette dai commercianti dei mercati. Tutto questo portò alla Commissione d’inchiesta sul Commercio – allora presieduta da NandoDalla Chiesa sotto la giunta comunale Formentini – sul cosiddetto racket dei fiori a Milano.

Di solito gli eroi vengono lasciati soli.

Quando entrai nel meccanismo burocratico della giustizia, e nel suo circolo perverso di solitudine e angoscia, insieme ad alcune personalità politiche decisi di fondare un’associazione di supporto alle vittime di usura, per aiutarle nel percorso della denuncia ed evitare che altri potessero patire la solitudine istituzionale che io stesso avevo subito.

Racconti una Milano che in pochi conoscono.

Con le mie denunce misi in evidenza i rapporti di corruzione tra criminalità organizzata e ripartizione del commercio nel comune di Milano. In questo contesto si inserisce un fatto gravissimo, riguardante Pietro Sanua, dirigente della Confesercenti, il primo ad occuparsi della mia vicenda. Fu ammazzato (nel 1995, ndr) in un agguato di stampo mafioso da due persone mai identificate, con due colpi di lupara sparati in faccia alle 5 e mezza di mattina a Corsico, nell’hinterland milanese.

Nel 1997, quindi nello stesso anno in cui apri l’associazione “Sos Racket e Usura”, tuo fratello Silvio viene condannato per usura. Che relazione c’è tra i due eventi?

Il fatto che un componente della mia famiglia – di cui pubblicamente ho preso le distanze – abbia commesso certi reati è stata una molla ulteriore per far scattare in me questo meccanismo di difesa nei confronti delle vittime di usura ed estorsione.

Quando hai capito che a Milano era il momento di fare qualcosa di concreto?

Nei sei mesi intercorsi tra i cinque incendi subiti e la mia successiva denuncia, mi accorsi che in questa città c’erano cose anomale. E te ne cito due. Avevo bisogno di soldi e mi rivolsi ad alcune finanziarie, scoprendo poi che queste società mi proponevano soldi ad usura. Inoltre, bazzicando il Monte di Pietà di Milano, notai nella zona la presenza costante di 20 pregiudicati che facevano ricettazione a cielo aperto. E parliamo di una zona compresa tra la Cariplo che erogava i fondi antiusura, Palazzo Marino, la Questura e il Comando dei Carabinieri.

Tutti sapevano ma…

Come si fa a sconfigger l’usura se l’illegalità viene tollerata così impunemente sotto gli occhi di tutti?

Qual è l’inchiesta di cui vai più fiero?

Ne cito due in particolare. La prima è quella sul racket degli alloggi, quando in 3 giorni abbiamo dimostrato che la cosa era talmente nota e diffusa che qualcosa non quadrava. La spiegazione? Semplice: gli alloggi popolari, come avviene nel sud Italia, vengono utilizzati da sempre – e da tutte le forze politiche – come serbatoio di voti. Ecco perché il crimine è stato tollerato. Non a caso il capo dell’organizzazione, tale Gaetano Camassa di Quarto Oggiaro, legato al potente clan Tatone-Carvelli, era lo stesso che da 15 anni si occupava della campagna elettorale del vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato (in carica dal 1997 al 2001, attualmente deputato Pdl, ndr).

E la seconda?

Sicuramente l’arresto del prefetto Carlo Ferrigno, un uomo che usava i suoi contatti per ottenere prestazioni sessuali in cambio di favori. Stiamo parlando di un arresto importante, di un uomo – Ferrigno – legato ai servizi, ex prefetto di Napoli, ex questore di Torino, ex capo dell’Ucigos, nominato dal governo Berlusconi a capo del Comitato Nazionale anti racket dal 2003 al 2006.

Un uomo potentissimo.

Nessun componente dell’allora Comitato Nazionale anti racket – tra cui Tano Grasso, Lino Busà e altri baroni dell’antimafia, soprattutto di sinistra – ha ritenuto opportuno fare una dichiarazione né quando Ferrigno fu arrestato né adesso che è stato condannato. Perché tutti sapevano quanto succedeva lì dentro. E nessuna forza politica ha mai voluto appoggiare la richiesta di una commissione parlamentare d’inchiesta, perché sarebbe emerso dove sono finiti i soldi durante quella gestione.

Il 6 novembre scorso, quindi qualche giorno prima che scoppiasse mediaticamente lo “scandalo Manzi” dichiari a Il Giorno: “Dopo telefonate di minaccia e pedinamenti, da 15 giorni non mi reco più presso la mia abitazione e le forze dell’ordine preposte alla mia tutela non hanno ritenuto sino ad ora chiedermi o telefonarmi per sapere dove fossi.”

Adesso siamo al 35° giorno che non rientro in casa, perché questa escalation di episodi minatori mi fa temere per un attentato violento contro la mia persona. Il livello di attenzione nei miei confronti si è tenuto volutamente basso per pressioni che i vertici delle forze dell’ordine hanno ricevuto dai vertici nazionali. E i miei nemici vanno cercati non solo all’interno della criminalità organizzata ma soprattutto – ed è la cosa che più temo – a livello istituzionale.

E arriviamo al 22 novembre, quando viene fuori la notizia secondo cui avresti confessato due auto-attentati contro tue proprietà, realizzati tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010 e commissionati ad un pluripregiudicato, Alberto Marcheselli, a cui avresti versato 1.200 euro per compiere il reato e 3.700 perché ti ricattava, minacciando di raccontare tutto alle autorità, si presume per infangarti.

Ho sbagliato e pagherò il mio conto fino in fondo, a differenza di altri. Ma voglio precisare che nessuno mi ha colto con le mani nella marmellata: io ho reso dichiarazioni spontanee, il 26 gennaio scorso, presentandomi in procura.

E perché la notizia è uscita con dieci mesi di ritardo?

Chi era a conoscenza delle mie dichiarazioni spontanee, vale a dire tre persone soltanto, si è preso il tempo giusto per passare la voce in tutti gli ambienti politici ed istituzionali, affinché io venissi isolato del tutto.

Che motivo avrebbero avuto per farlo?

Da troppo tempo ho rubato la scena pubblica ai professionisti dell’antimafia e questa era l’occasione d’oro per tagliarmi fuori, capisci?

Mi sembra paradossale farti fuori solo per questioni di spazio mediatico.

Dovresti chiedere ai diretti interessati.

Come hai conosciuto il pregiudicato Alberto Marcheselli?

Lo conobbi dieci anni fa e poi non ebbi più rapporti con lui perché era in galera. Lo contattai nell’ambito delle informazioni che arrivavano sul racket degli alloggi, riguardanti la presenza di organizzazioni criminali a Cinisello Balsamo e lui è originario proprio di Cinisello. Tieni conto che io, come del resto le forze dell’ordine, abbiamo molti contatti con informatori che gravitano nell’ambiente della criminalità .

Se proprio eri intenzionato a farti gli auto- attentati, che bisogno c’era di rivolgerti ad altri: non potevi agire da solo?

Ma l’idea nasce da Marcheselli! Ed io stupidamente mi faccio convincere e quindi ne divento complice. L’ho già ripetuto anche ai magistrati. L’idea non parte da me, ma da lui, anche se questo è ininfluente.

E non avevi pensato che dietro il suo aiuto potesse nascondersi qualcun altro?

No.

Nemmeno che avrebbe potuto ricattarti?

No. La paura che vivevo in quel momento era tanta. Tieni conto che questo contesto nasce dopo una serie infinita di intimidazioni pubbliche e minacce di morte che io subisco davanti a decine di carabinieri, giornalisti e personaggi politici. Nessuno ha mai denunciato queste vicende.

E quindi hai pensato che un gesto clamoroso potesse…

Ma la domanda da farsi è un’altra: perché questa gente che mi ha minacciato di morte in pubblico non è mai stata denunciata d’ufficio dalle forze dell’ordine?

Però io vorrei provare a capire come hai affrontato, dal punto di vista emotivo, quel momento in cui stavi per commettere un grosso errore.

Con paura.

Avevi dei rimorsi?

No, quelli ovviamente sono arrivati il 26 gennaio, quando sono andato a confessare. Avevo ed ho paura, non tanto per me ma per la mia famiglia, perché chi è addetto alla mia tutela non è in grado di tutelare neanche un paio di scarpe. Io non mi fido più dell’Arma dei Carabinieri. E se arrivo a dire una frase del genere ho le mie motivazioni.

C’è un punto che non mi è chiaro. Non hai mai sospettato che l’offerta di Marcheselli potesse essere una trappola per farti fuori?

No.

E col senno di poi?

Col senno di poi si, perché quello che è successo dal 2010 fino ad ora mi potrebbe far pensare ad una trappola, certo. Ma sono talmente tante le denunce che abbiamo fatto e i nemici che mi sono creato, sia nelle istituzioni che nella criminalità organizzata, che potrebbe esserci dietro chiunque. Ti racconto un passaggio relativo all’inchiesta che facemmo insieme al Corriere della Sera ed a Tsi, la tv della Svizzera italiana, sulle infiltrazioni mafiose all’interno del casinò di Lugano. Scoprimmo che gli uomini di Nitto Santapaola stavano per mettere in atto una colossale operazione di riciclaggio per 25 milioni di euro. Una settimana dopo la pubblicazione dell’inchiesta il quotidiano politico “La Padania”, a firma di Gigi Moncalvo, esce in prima pagina con un articolo violentissimo nei miei confronti, attaccando “Sos Racket Usura”.

So che hai scritto anche a Bossi per chiedere spiegazioni.

Certo, perché nessuno capiva come mai un quotidiano che da sempre attaccava la mafia decide invece di diffamare un’associazione anti racket. Nonostante questo, in quel periodo “La Padania” fa una serie impressionante di articoli contro di noi, 18 per l’esattezza, neanche fossimo le BR.

Risultato finale?

Gigi Moncalvo è stato condannato per diffamazione aggravata.

Nonostante quanto ti sia successo, hai deciso di non fermarti, anzi di rilanciare: la battaglia va avanti, con Forza Nuova aprirai nuove sedi. Pare sia l’unico partito davvero interessato a sostenerti.

Nessun altro ha voluto darci una sede. Io non sono di Forza Nuova e non ne condivido l’ideologia ma loro mi danno una struttura affinché io esporti in tutta Italia il metodo di lavoro che ha funzionato sulla città di Milano e sul suo hinterland. E quando presenteremo la nuova associazione il vertice sarà totalmente trasversale.

Intanto vieni ulteriormente attaccato per esserti legato a FN.

Qui bisogna piantarla con l’idea che l’antimafia sia proprietà della sinistra! L’antimafia è una lotta che deve essere condivisa da tutti e invece c’è ancora troppa ideologia politica. Quando assisto le vittime di usura ed estorsione non chiedo mica la tessera elettorale, ma per altri non è così. Ecco qual è la differenza. E in più io lo faccio gratis, perché siamo l’unica associazione italiana che non prende fondi.

E la mafia, così come l’anti mafia, è una faccenda trasversale.

Non si può andare in televisione a dire che l’interlocutore della ‘ndrangheta in Lombardia è la Lega Nord, perché si tratta di un dato politicamente falso. Le ‘ndrine interloquiscono con tutto il potere politico. Pensa che lo statista della ‘ndrangheta, Vincenzo Mandalari, aveva come referente privilegiato nella zona di Bollate (Milano, ndr) un tale Francesco Simeti, che apparteneva a Sel (poi sospeso dal partito, ndr). E bada bene a quello che ti sto dicendo, Sel è tuttora fortemente inquinata a Bollate. La lotta alla mafia è un problema politico e la mia associazione vuole dimostrare si può vincere risvegliando quelle coscienze che dormono.

Chi te lo fa fare di esporti in questo modo?

Ce l’ho nel mio dna. Il mio modello di vita si chiama Peppino Impastato.

Un aforisma che ti rappresenta.

Non bisogna piegarsi alle ingiustizie.