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ILVA/ Prestigiacomo sapeva. Omertà anche con l’azienda di famiglia: tumori e anomalie, ma lei muta.

L’ex ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo sapeva. Sapeva delle irregolarità nello stabilimento, sapeva dei gas, sapeva delle alte incidenze tumorali. Eppure non disse niente. Perché, pur sapendo, non è intervenuta? In realtà, non c’è da sorprendersi. Una situazione incredibilmente simile all’Ilva è accaduta alcuni anni fa a Siracusa, all’azienda petrolchimica Ved. Proprietari – non stupirà – proprio la famiglia Prestigiacomo. Ed anche lì Stefania non è intervenuta. Né da padrona, né da ministro.

di Carmine Gazzanni

Sull’Ilva l’ex ministro all’ambiente Stefania Prestigiacomo sapeva. Almeno dall’aprile 2011. Eppure niente. Non una voce si è alzata dal ministero. Anzi, stando a come sono andati i fatti, tutto è stato fatto per chiudere non uno, ma entrambi gli occhi. Questo è quello che emerge dal rapporto dei Noe dei carabinieri di Lecce che denunciarono all’ex ministro centinaia di “eventi irregolari”.

Un rapporto chiuso nel cassetto dalla Prestigiacomo, ma che oggi torna con tutte le conseguenze che ne seguono: basti pensare che è proprio questo rapporto ad essere uno dei motivi portanti che ha spinto il Gip di Taranto a ordinare la chiusura dello stabilimento e la sospensione della produzione.

Sorgono allora pesanti interrogativi sull’operato della Prestigiacomo e dello staff del ministero. Com’è stato possibile, allora, concedere all’acciaieria la cosiddetta AIA (Autorizzazione integrata ambientale), autorizzazione indispensabile per l’apertura e il funzionamento dello stabile? Per giunta non si tratterebbe solo di dati e numeri. A corredo del rapporto, infatti, ci sarebbero anche dei video realizzati dal Noe, sempre prima che fosse concessa l’AIA. Ad essere ripreso il cosiddetto slopping, ovvero la fuoriuscita di ossido di ferro (dall’elevata cancerogenicità) durante le colate di acciaio. Ebbene, dal primo aprile al 10 maggio del 2011 furono segnalati 121 fenomeni di slopping all’acciaieria 1 e 65 all’acciaieria 2. Una differenza che salta all’occhio tra la prima e la seconda. Una differenza, secondo i Noe, imputabile al fatto che all’acciaieria 1, al contrario della 2, nessun sistema di captazione moderno era stato montato. Sebbene fosse assolutamente obbligatorio. Già quanto detto basterebbe per arrivare a due conclusioni: nessun controllo adeguato è stato eseguito dal ministero prima della concessione dell’AIA; ma soprattutto alcun rilievo è stato dato ad un rapporto (scritto e filmato) che raccontava una realtà incredibilmente sottovalutata.

Finita qui? Certo che no. Neanche il sistema di smaltimento, stando all’attività di monitoraggio, sarebbe idoneo e a norma. Scrive infatti il Gip di Taranto Patrizia Todisco: “Durante la fase di scaricamento i militari notavano personalmente, in sede di sopralluogo, la generazione di emissioni fuggitive provenienti dai forni che, una volta aperti per fare fuoriuscire il coke distillato, lasciavano uscire i gas del processo che invece dovrebbero essere captati da appositi aspiratori/abbattitori”.

Eppure, come detto, nonostante il rapporto fosse stato presentato a Stefania Prestigiacomo prima della concessione dell’AIA, non si è mossa una foglia. Niente di niente. E la famiglia Riva ha ottenuto la sua bella autorizzazione, potendo contare su un’incredibile rete di clientele, amicizie e mazzette in cui finirebbero tutti: dai dirigenti dell’ARPA Puglia fino a uomini del ministero (tra cui, secondo le intercettazioni, anche il successore della Prestigiacomo Corrado Clini, all’epoca dei fatti direttore generale del ministero).

Rimane, però, l’inquietante dubbio: perché Stefania Prestigiacomo pur sapendo non è intervenuta? In realtà, non c’è da sorprendersi. Almeno stando alla sua storia. Pochi lo sanno ma l’ex ministro, prima di entrare in politica, era (ed è tuttora) un’importante imprenditrice industriale, in affari con grandi colossi come Eni, Agip, Erg, Esso e via dicendo.

I guadagni, infatti, per Prestigiacomo e famiglia sono arrivati proprio dal petrolio. Tuttavia l’interesse dell’ex ministro dell’ambiente per l’ambiente (si scusi il gioco di parole) non è mai stato altissimo. Tutt’altro. Nell’orbita della Prestigiacomo family, infatti, ritroviamo anche un’azienda petrolchimica, la Ved. A riguardo le somiglianze con quanto accaduto all’Ilva di Taranto sono stupefacenti. La Ved, infatti, nel 2001 balza agli onori della cronaca perché la Procura di Siracusa apre un fascicolo. Il reato contestato, addirittura, è di lesioni. Tutto comincia nel 1993. Un operaio scopre che suo figlio ha una malformazione congenita, reflusso urinario (per un danno all’uretere i veleni del suo corpo tornano al rene). Dopo alcune operazioni, il problema viene risolto. Passano alcuni anni e lo stesso identico problema si ripresenta: anche il figlio di un altro operaio deve operarsi urgentemente per febbre alta e reflusso urinario. Passa un anno e il discorso non cambia: stesso caso per il figlio di un altro operaio ancora. Ma i Prestigiacomo non muovono un dito. Imbarazzante se si pensa addirittura che uno dei tre dipendenti è il cugino di secondo grado di Stefania. Ma niente. Neanche il legame familiare serve a qualcosa.

Passano altri anni, ma si ripresenta l’ennesimo caso anomalo: un figlio di un operaio nasce con alcune dita delle mani attaccate. Sperando nella loro bontà d’animo l’operaio chiede un prestito ai suoi padroni. Ma niente. Il figlio riuscì ad operarsi solo dopo una colletta tra i colleghi.

Nel giro di anni, però, la percentuale di incidenza tumorale e di malformazioni congenite crebbe spaventosamente. La Procura aprì, come detto, un fascicolo. E il ministero dell’ambiente fu costretto a intervenire per bonificare area e stabilimento. Domanda: chi se ne occupò? Stefania, chiaramente. Per capire la criticità della situazione basti pensare che il costo preventivo per la bonifica dell’area si aggirava intorno ai 774 milioni di euro. Sarà una casualità, ma la stragrande maggioranza di quei soldi si decise fossero a carico dello Stato. Scriveva Giorgio Mottola tempo fa su Terra: “solo poco più di 220 milioni sono a carico delle società che hanno provocato l’inquinamento”. Ergo: per le casse pubbliche l’inquinamento dell’area sarebbe costato qualcosa come 550 milioni di euro. Il condizionale, però, è d’obbligo: ad oggi infatti nessun lavoro di bonifica è stato portato avanti (se non poca roba), in quanto, via via, i soldi sono stati dirottati verso altre emergenze, o presunte tali.

Una situazione simile a quanto sta accadendo a Taranto. E forse, chissà, la Prestigiacomo, proprio presa dalla disperata situazione delle aziende di papà, non ha avuto tempo di leggere quel rapporto del Noe. Peccato. Avrebbe capito subito la situazione, dato che era la stessa che si era profilata nel suo stabilimento petrolchimico: tumori, malformazioni e silenzio dei dirigenti. Tutto uguale. Pari pari.