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PROCESSO BREVE/ Un toccasana per gli interessi di B.

Silvio Berlusconi pare contare molto sul processo breve, tanto che la discussione a riguardo in Parlamento è già stata calendarizzata per il prossimo 28 marzo. L’obiettivo è quello di vedere approvato il provvedimento entro fine aprile. In questo modo il premier dovrebbe riuscire a ipotecare almeno due dei suoi processi, quello per la corruzione dell’avvocato inglese David Mills e quello riguardante i presunti fondi neri Mediaset previsti rispettivamente per l’11 marzo e il 28 febbraio prossimi.

di Carmine Gazzanni

Il testo licenziato alcuni giorni fa da palazzo Madama si compone di 10 articoli. Alcuni punti sono stati modificati rispetto al testo originale, ma in maniera assolutamente superficiale: si alza, infatti, il tetto della durata massima dei processi. Se prima il testo contemplava due anni per ogni grado di giudizio (per un massimo di sei anni), oggi nel ddl si parla di 3 anni per il primo grado, 2 per il secondo e 18 mesi per la Cassazione. Per un totale di sei anni e sei mesi. Soltanto metà anno in più, dunque, rispetto a quanto si era previsto inizialmente.

Detto questo, bisogna specificare alcune questioni. Innanzitutto non tutti i reati saranno “degni” dello stesso trattamento. Il processo breve, infatti, sarà destinato esclusivamente ai processi per reati con una pena massima fino a dieci anni. E tra i tanti ritroviamo anche la corruzione giudiziaria (reato per il quale B. è imputato nel processo Mills), frode fiscale, appropriazione indebita e falso in bilancio (processi Mediaset e Mediatrade). La legge, inoltre, avrà valore retroattivo: sarà, in pratica, valida da subito, anche per i processi già in corso. E questo è un aspetto molto importante perché potrebbe essere l’unico modo per permettere a Berlusconi di salvarsi da processi che lo intimoriscono non poco, ad iniziare da quello per la corruzione di David Mills che potrebbe facilmente arrivare alle sentenze di primo e secondo grado essendo Berlusconi l’unico imputato rimasto.

Ma ancora non è finita. Curiosa è anche la motivazione, il casus belli addotto dal Governo per giustificare una misura così concepita. Secondo il Ministro Alfano, infatti, i processi in Italia durerebbero troppo: tempo fa il Guardasigilli affermò che nel nostro Paese i processi hanno una durata media di sette anni. Ma questa è la riforma giusta per abbreviare i tempi della giustizia italiana? Assolutamente no: con questa misura si falcidiano i processi, non li si accorciano. Non si permette ai giudici di lavorare meglio e in tempi più brevi, ma si impedisce loro di lavorare. Non è un caso che l’Anm abbia condannato, dati alla mano, il ddl perché, in questo modo, si arriverebbe alla sospensione immediata del 50% dei procedimenti pendenti a Roma, Bologna e Torino; mentre a Firenze, Napoli e Palermo, l’estinzione riguarderà una percentuale di procedimenti compresa tra il 20 e il 30 per cento.

Il che risulta impossibile agli occhi di Alfano, che tempo fa affermò: “Ma stiamo scherzando? Invito l’Anm a non giocare con le parole e neanche con i numeri, e dunque a chiarire bene i termini della questione … Dei procedimenti penali ho parlato dell’1%. Sono evidenti alcune contraddizioni che svelano i reali motivi – salvare B. – per cui è stato concepito questo ddl: come può Alfano parlare soltanto dell’1% dei processi, se lui stesso ha detto che in Italia durerebbero mediamente sette anni e mezzo, mentre con la riforma non potrebbero durare più di sei anni e sei mesi? E ancora: mettiamo pure che Alfano abbia ragione, che la riforma riguarderebbe solo l’1% dei processi. Come si può ritenere questo ddl benefico per la giustizia italiana se poi va a colpire una fetta così piccole, quasi inesistente di processi? Insomma, a prescindere da come la si ponga, le contraddizioni restano e ci permettono di capire i motivi reali che hanno spinto Alfano, Ghedini & co. a elaborare tale disegno di legge.