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‘NDRANGHETA IN MOLISE/ Il pentito Bonaventura, il precedente di Lea Garofalo e il reale pericolo

Dai Bellocco di Rosarno, che operano nel capoluogo campobassano, ai Ferrazzo di Petilia Policastro, presenti sul litorale adriatico, la presenza della ‘ndrangheta in Molise è un fatto accertato da inchieste giudiziarie e giornalistiche. Ora la questione torna alla ribalta grazie ad un consigliere da sempre impegnato nell’antimafia, Michele Petraroia, che vuole accendere i riflettori sul caso del pentito Luigi Bonaventura per evitare che si ripeta una tragedia simile a quella che ha coinvolto Lea Garofalo

di Viviana Pizzi

La presenza della ‘ndrangheta in Molise è una vera minaccia per il territorio regionale. Non si tratta più soltanto di timori ma di situazioni reali che interessano soprattutto la provincia di Campobasso e in particolare la città di Termoli. Lo aveva dichiarato anche il pentito Luigi Bonaventura che – ormai lo sanno tutti – vive nella cittadina adriatica molisana da molto tempo, insieme alla moglie, due figli piccoli e altri due familiari entrati nel programma protezione dei testimoni di giustizia.

Ora, a sottolineare nuovamente il problema, è stata un’interrogazione del consigliere regionale Michele Petraroia, che insieme al presidente dell’associazione “Libera contro le mafie” Franco Novelli è andato a trovarlo nella sua dimora termolese. Dove, come dice lo stesso esponente politico piddino, “siamo entrati tranquillamente, non c’era nessun sistema di sicurezza che lo proteggesse”.

Una situazione davvero precaria quella che vive Bonaventura, che da un anno ormai lancia appelli a tutti, dal Presidente della Repubblica fino ai ministeri di Giustizia e Difesa. Eppure a tutt’oggi resta ancora a Termoli, città in cui – come lui stesso ha dichiarato – “sono disseminati diversi pentiti di ndrangheta di famiglie avversarie appartenenti alle famiglie di Crotone”.

Cosa teme Bonaventura? Che si possano riprodurre nel territorio molisano le stragi di ‘ndrangheta verificatesi negli anni scorsi in Calabria. E che a rimetterci siano proprio lui e i suoi familiari ma anche chi con la Santa non ha nulla a che fare. Tra questi, ovvio, i cittadini molisani.

Delle sue esigenze si è fatto promotore il consigliere regionale Petraroia, che chiede di sapere quanti sono i pentiti di ‘ndrangheta realmente presenti sul territorio basso molisano.

Stime ufficiali della Questura non esistono e di fronte ad una nostra richiesta la risposta è stata lapidaria:“ Per questioni di riservatezza non diffondiamo dati sensibili”.

Ecco nel dettaglio cosa chiede il consigliere Michele Petraroia:

“ Vorremmo innanzitutto una normativa nazionale di riferimento da modificare e più garantista.  Stando alle dichiarazioni quando Bonaventura è stato raggiunto a Termoli  lo hanno avvicinato, minacciato e gli hanno inviato anche buste con proiettili. Per questo la legge nazionale  andrebbe rivisitata. O si viene giudicati credibili e protetti oppure no. Chiediamo che i pentiti di ndragheta non stiano concentrati tutti nello stesso territorio. La cosa più grave è il silenzio dei termolesi. Passano mesi e nessuno ha risposto all’appello dei Bonaventura. Come se tutto questo non esistesse.  Senza mobilitazione civile non ci si rendono conto che se ci sarà  una sparatoria di ndrangheta  può morire chiunque. Bisogna agire e prendere serie iniziative. In qualsiasi parte d’Italia avrebbero istituito un consiglio comunale monotematico. Qui invece nulla. Bisogna rimuovere questo silenzio a tutti i costi”.  

Ma chi era Bonaventura prima di arrivare a Termoli? Bisogna comprenderlo se si vuole capire il grado di pericolosità che la sua o altre presenze hanno portato nella zona del Basso Molise. Era un pentito che aveva rifiutato di andare anche nelle Marche e nella Romagna perché anche li “la presenza di numerose famiglie di ndrangheta che aveva denunciato avrebbero potuto minarne la sicurezza personale”.

Sul caso Bonaventura è aperta un’indagine presso la Procura della Repubblica di Campobasso nella quale ci si chiede chi possa aver rivelato il suo nascondiglio segreto di Termoli, cui le cosche rivali sono arrivate in pochissimo tempo.  Prima del suo ‘pentimento’, era uno dei boss del clan Vrenna-Bonaventura-Corigliano della provincia di Crotone.

Bonaventura è direttamente collegato sia alla famiglia Ferrazzo, che a Termoli aveva preso in gestione un garage per adibirlo a deposito armi scoperto nel 2011 e a San Salvo aveva messo in atto uno spaccio di droga riferito proprio alla ndrangheta, che a Lea Garofalo, le pentita aggredita e sciolta nell’acido nel milanese dopo un tentativo di sequestro avvenuto proprio a Campobasso nel 2009. A proposito della pentita coraggio disse: “La ‘ndrangheta mi farà fare la stessa fine di Lea Garofalo: ho paura”.

Storie di sangue che si intrecciano e che hanno sconvolto quella che prima era definita un’isola felice. Bisogna capire anche chi era Lea Garofalo per comprendere in che modo anche la città Campobasso sia stata scenario di faide tra calabresi malavitosi. Si tratta di un’ex collaboratrice di giustizia e compagna di Carlo Cosco di Petilia Policastro (Crotone) trapiantata a Milano. Di lei non si avevano più tracce dal 24 novembre 2009.  Fonti investigative parlarono di un allontanamento volontario. Si ipotizzò che avesse voluto lasciare il programma di protezione dopo un tentativo di sequestro avvenuto nel centro storico di Campobasso nel maggio dello stesso anno. Quando un finto tecnico si presentò a casa sua in apparenza per riparare un guasto. Ma poi tentò di sequestrarla. Lei e la figlia Denise si accorsero di tutto, si ribellarono e per quella volta si salvarono. Ma la vita di Lea termina sei mesi dopo anche se poi ci volle un anno a dipanare la matassa della sua scomparsa. Fu proprio la Dda di Campobasso  che con un’indagine accurata e coordinata con la procura di Milano, scoprì quanto accaduto: Lea Garofalo è stata uccisa e il suo corpo sciolto nell’acido.

L’accusa per tutti gli arrestati era quella di aver organizzato un tentativo di omicidio nel maggio del 2009 proprio a Campobasso. Con lui, in cella, Massimo Sabatino, 37 anni, spacciatore nella zona di Quarto Oggiaro. Fu colui  che avrebbe materialmente cercato di ucciderla. Lui il finto tecnico che le ferì la gola prima  che Lea riuscisse a scappare.

Per quel tentativo di sequestro ha rimediato una condanna a sei anni di reclusione. Il 24 febbraio del 2010, sempre per la sparizione della donna, erano state arrestate in Molise altre due persone. Successivamente sono state coinvolte in un’altra inchiesta nella quale erano accusati di aver messo a disposizione alcuni capannoni (nel Milanese) dove la donna sarebbe stata portata dopo la scomparsa.

Come Lea Garofalo era arrivata a tutto questo?  Nel 2002 aveva iniziato a collaborare con l’antimafia nelle indagini sulla faida tra la sua famiglia e il clan rivale dei Mirabelli. Nel 2006, aveva abbandonato il piano di protezione e lasciato la località segreta dove viveva. Anche lei, come Luigi Bonaventura, non si sentiva sicura. I parenti che ormai la odiavano riuscivano spesso ad entrare in contatto con lei. E le intimavano di lasciare il piano di protezione se ci teneva alla sua pelle.  Lea Garofalo in quegli anni  aveva fornito anche dettagli fondamentali sugli omicidi di mafia avvenuti alla fine degli anni novanta a Milano.

Le indagini che hanno preso piede dopo le sue dichiarazioni, hanno portato a galla anche le malefatte del convivente Carlo Cosco. Lui e Lea vivevano nello stabile di viale Montello, 6, nel centro di Milano. Prima di morire la donna s’era recata  proprio lì. Era stata convocata per una riunione di famiglia con alcuni parenti per decidere, almeno questo il pretesto con il quale l’avevano attirata, dove la figlia avrebbe proseguito gli studi dopo le superiori. Le sue tracce si sono perse nel pomeriggio quando alcune telecamere l’hanno inquadrata nella zona del palazzo e lungo i viali che costeggiano il cimitero Monumentale. Era sola, la figlia e il padre lo stesso Carlo Cosco finito poi in manette, erano in stazione Centrale ad attenderla insieme al treno che avrebbe dovuto riaccompagnarla nella sua terra. Ma al posto di arrivare in Calabria è giunta nel milanese. Dove l’hanno prima sparata e poi uccisa e sciolta nell’acido.

Ma Bonaventura aveva anche denunciato gli affari sporchi della famiglia Ferrazzo. Aveva sempre sostenuto che Felice e suo figlio Eugenio avessero finto di pentirsi per stabilirsi tra San Salvo e Campomarino e continuare da lì i loro affari sporchi.  Dopo l’episodio del garage di Termoli, a disposizione di Felice Ferrazzo per custodire armi utili a vere e proprie stragi e l’arresto di suo figlio Eugenio, scoperto a spacciare droga per la ndragheta servendosi di un deposito a San Salvo l’ultima tegola che dimostra la teoria del pentito calabrese l’hanno messa i carabinieri di Varese nei giorni scorsi. Eseguendo otto ordinanze di custodia cautelare per traffico internazionale di armi e di stupefacenti, sgominando un’organizzazione legata alla cosca ‘ndranghetista dei Ferrazzo.  Le indagini che hanno portato al suo arresto hanno coinvolto anche la Svizzera. Nell’inchiesta di San Salvo si è invece scoperto che la cocaina, lavorata in un garage adibito a laboratorio tessile, era diretta ai mercati di Pescara, Termoli, Campomarino, Montenero, Chieti

I tre casi appena raccontati, tutti collegati dal filo unico delle dichiarazioni del pentito Bonaventura, dimostrano che in Molise ci sono davvero rischi non soltanto per i pentiti ma per le stesse comunità che li ospita. Tutti insieme in paesi troppo vicini dove quelli falsi possono rintracciare quelli veri. Petraroia chiede la salvaguardia di un territorio meno sicuro di quanto si possa credere. Noi ci accodiamo all’appello chiedendo maggiore sicurezza per l’Italia e per il Molise.