MARIANO SABATINI/ “Sogno un giornalismo che nasca dalle strade, dal consumare le scarpe…”
“Ha scritto di costume, cultura e spettacoli per i maggiori quotidiani e periodici, condotto rubriche su RadioRai, PlayRadio, Radio Capital e in passato è stato autore di Tappeto Volante, Uno Mattina ed altri.” Ma, forse, Mariano Sabatini resta soprattutto uno scrittore, che ci parla di un’Italia “che s’è mesta”, che ci racconta di quella volta che Monicelli…e che ci svela il segreto su come si diventa giornalisti.
di Andrea Succi
“L’Italia s’è mesta” è la sua quinta fatica letteraria. Scrittore e giornalista poliedrico, ex autore televisivo ora critico (firma una rubrica televisiva su Metro e su Tiscali Notizie), ha esordito con un libro-intervista sulla carriera di Monicelli, La sostenibile leggerezza del cinema, nato da lunghe conversazioni con il regista. La “smania” di far domande gli concede il lusso di raccontare i metodi di lavoro e le abitudini di romanzieri famosi, che in “Trucchi d’autore” svelano tic, segreti e tecniche di lavoro. Da Camilleri a Faletti, dalla Maraini a Bevilacqua, in tanti si prestano a sviscerare i retroscena della nascita di un romanzo di successo. Ed è ancora la curiosità che lo spinge verso “Ci metto la firma”, il suo quarto libro in cui indaga come si diventa giornalisti attraverso la gavetta di sessanta grandi nomi del giornalismo: Barbara Serra, Vittorio Feltri, Sandro Ruotolo, Fabio Caressa, Pietro Calabrese, Claudio Sabelli Fioretti, Gianni Mura…alzi la mano chi non si è mai chiesto cosa facevano quando non erano nessuno.
“L’Italia s’è mesta” si inserisce in questo filone dei libri-intervista, dove i corrispondenti stranieri delle più importante testate internazionali – El Mundo, Le Figaro, CNN, BBC, Nouvel Observateur, etc. – ritraggono il Belpaese visto da oltreconfine.
Dove nasce “L’Italia s’è mesta”?
È un libro dovuto a me stesso e come tutti i miei libri è fatto di domande e risposte; è un libro attraversato non da pessimismo, come potrebbe far pensare il titolo, ma da una spietata esigenza di realismo. La mestizia evocata dal titolo, che si rifà ovviamente alla parafrasi dell’inno d’Italia, tanto vituperato, è una mestizia che pervade tutti, con cui tutti quotidianamente dobbiamo misurarci.
Nell’ultimo capitolo de “L’Italia s’è mesta” hai anticipato il tema narrativo di “Vieni via con me”, il programma cult del 2010, tutto incentrato sul dilemma – amletico – restare o partire.
Quell’ultimo capitolo a cui fai riferimento è nato molto prima della trasmissione televisiva…Io credo che tutti gli uomini di cosiddetta buona volontà e di qualche raziocinio si misurano con questa spinta a lasciare il paese e a prenotare un viaggio di sola andata per chissà dove. Ognuno ha un altrove dove si immagina e dove sogna una vita sicuramente più entusiasmante e meno carica di ansie rispetto a quello che ci dà questa Italia mestissima. Non bisogna giudicare né chi parte né chi, coraggiosamente, rimane.
Fabio volo diceva che dopo la fuga dei cervelli c’è stata la fuga dei coglioni: era partito anche lui.
(ride)
Spero che, dopo essere andati, tornino sia i cervelli sia le persone che si identificano con altre parti del corpo.
Qualcuno ha scritto che è un libro anti-berlusconiano.
A prescindere dal fatto che chi l’ha scritto secondo me non ha capito nulla del libro, la mestizia sta proprio nella constatazione che non c’è positività nel berlusconismo e non c’è, allo stato dei fatti, un’alternativa valida al berlusconismo.
Il Paese sembra allo sbando.
È un momento cruciale ma è anche un momento molto preoccupante. Non sono tra quelli che si augurano le elezioni ad ogni costo, né ti saprei dire se è giusto fare un rimpasto. Credo che la ricetta per l’elisir di lunga vita, per questo paese, non ce l’abbia nessuno in questo momento e questo mi preoccupa molto. Non mi dà motivi di entusiasmo e di sicumera.
Parliamo di Monicelli, che tu hai conosciuto.
Era una persona animata da decisionismo. Fare film, mi disse una volta, significa prendere continuamente decisioni con persone che ti chiedono consigli su come fare un arredo, su come sistemare un costume di scena, su come fare un trucco, su come rendere un personaggio. Intendiamoci, mi disse, un regista deve sempre prendere decisioni e far marciare il film, anche verso la catastrofe, però deve far marciare.
Come hai letto il suo ultimo gesto?
Evidentemente a 95 anni, con un cancro in fase terminale, magari anche solo – e non perché i familiari lo avessero lasciato solo, ma perché a 95 anni ci si misura sostanzialmente con se stessi e quindi si è inevitabilmente soli , si nasce soli e si muore soli – Monicelli si è costruito i titoli di coda. È stato molto coerente con la propria vita, con la propria realtà umana e professionale, è stato un regista fino alla fine. Per cui mi son sentito di applaudire a questo gesto di libertà e di coraggio, alla faccia delle binetti che in Parlamento sparlano di una figura che è tanto più alta di noi e tale rimarrà sempre.
La morte, soprattutto se indotta o cercata, continua a far paura.
Questo paese ha un estremo bisogno di un dibattito a riguardo. Nel libro si parla anche di eutanasia, spaziando sulle coppie di fatto, sulla pillola abortiva e sull’aborto, sempre messi in discussione. L’Italia è un paese attraversato da spinte oscurantiste, dovute in larga parte all’egemonia e all’invadenza della Chiesa cattolica. Anche su questo ho chiamato a rispondere i giornalisti stranieri. A maggior ragione, il gesto di Monicelli va guardato con grande attenzione, umiltà e rispetto.
Domandone: come si diventa giornalisti?
(ride)
Ho scritto un libro di 360 pagine, che si chiama “Ci metto la firma”. Si diventa giornalisti mettendoci la firma, paradossalmente. È molto difficile, per chi inizia a fare il giornalista, misurarsi con questo muro di gomma per cui si ha la sensazione che solo chi è già giornalista riesce a fare il giornalista.
Come si supera questo empasse?
Oggi internet è di grande aiuto, ma bisogna tenere in grande considerazione anche i giornali locali, le radio, le tv, l’importante è non farsi sfruttare troppo, anzi non farsi sfruttare per niente. Io che ho iniziato quasi vent’anni fa, anche agli esordi ho sempre mirato a farmi pagare, perché solo con un corrispettivo economico si rimane nell’ambito del professionismo e non del dilettantismo.
Tutti giornalisti uguale nessun giornalista.
Oggi c’è il rischio che internet possa dare l’illusione che siamo tutti giornalisti, che tutti possono fare i giornalisti, che tutti possono metterci la firma. In realtà ci si può considerare giornalisti professionali o professionisti solo quando si vive, anche da poveri, con gli emolumenti che la professione ci dà.
Il che non è semplice né scontato.
Una via privilegiata sono le università, ci sono tante facoltà riconosciute dall’ordine dei giornalisti. Io continuo a sognare un accesso alla professione meno accademico: la cultura è importantissima, ma si può coltivare anche in via personale, anche al di fuori delle accademie. Continuo a sognare una professione che nasca dalle strade, dal consumare le scarpe…