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CULTURA/ Le furbate del governo che infila nei decreti le norme per privatizzare. E ci riesce

C’era da aspettarselo. Se al governo siedono gli economisti del governo Monti, spazio per la cultura ne rimane ben poco. O, meglio, c’è spazio solo se anche questa è finalizzata a fare cassa. In rapida successione – e nel silenzio di buona parte dei media – prima con la spending review e poi con il Dl Sviluppo si sono assestati due pesanti colpi al mondo della cultura: soppressione dei comitati tecnico-scientifici del ministero per la Cultura (pur avendo un costo decisamente esiguo) e privatizzazione della pinacoteca nazionale di Brera, sulla quale cosa è stata fatta una vera e propria furbata.

di Carmine Gazzanni

È paradossale. Ma i fatti dicono questo: i tecnici hanno fatto fuori i tecnici. Se ne sono sbarazzati sopprimendo, appunto, i comitati tecnico-scientifici ministeriali e  consegnando le loro mansioni ai dirigenti – ovvero all’apparato burocratico partitico – che su quadri, sculture, opere monumentali sanno poco o niente. La vittoria della casta burocratica, dunque. A cui fa da contraltare la sconfitta (pesante) della cultura.

Oramai lo sappiamo: la logica dei tagli sembrerebbe consentire tutto. Anche falcidiare quanto di buono è rimasto a proposito di salvaguardia della cultura italiana. Eppure, è proprio questo quello che si è profilato con l’ormai famosa spending review. Il decreto legge firmato da Mario Monti ed Enrico Bondi, infatti, ha stabilito che i comitati tecnico-scientifici ministeriali in scadenza vengano soppressi. Il che è un dramma soprattutto, appunto, per il MiBAC: scompariranno, infatti, tutti i sette comitati di cui dispone il ministero. Da quello per i beni archeologici a quello per i beni architettonici e paesaggistici; da quello per il patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico a quello per gli archivi; e poi, ancora, il comitato per i beni librari e gli istituti culturali; per la qualità architettonica e urbana e per l’arte contemporanea; infine quello per l’economia della cultura.

Si dirà: poco male, risparmiamo qualche moneta. Neanche questo. Ognuno di questi comitati è costituito da quattro membri (alcuni eletti, altri nominati dal ministro), che non comportano alcuna indennità, se non piccoli rimborsi (come i biglietti del treno). Insomma, il sapere a servizio del ministero era anche pressoché gratuito.

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Ma allora qualcuno insisterà: probabilmente erano inutili, altrimenti non ci sarebbe stato alcun motivo si sopprimerli. Logica vorrebbe questo. Ma, purtroppo, neanche questa volta le cose stanno in questo modo. Basti d’altronde rispolverare il decreto del Presidente della Repubblica (26 novembre 2007, n. 233) in cui, all’articolo 14, vengono precisati i compiti dei comitati: avanzano proposte, per la materia di propria competenza, per la definizione dei programmi nazionali per i beni culturali e paesaggistici e dei relativi piani di spesa”; “avanzano proposte in ordine a metodologie e criteri di intervento in materia di conservazione di beni culturali e paesaggistici”; “esprimono pareri in merito all’adozione di provvedimenti di particolare rilievo”. Esprimono, insomma, “pareri su ogni altra questione di carattere tecnico-scientifico ad essi sottoposta”. D’altronde sono tecnici autorevoli, padroni delle proprie conoscenze: non a caso ogni comitato è composto da un “da un rappresentante eletto, al proprio interno, dal personale tecnico-scientifico dell’amministrazione tra le professionalità attinenti – appunto – alla sfera di competenza del singolo Comitato”; da due esperti di chiara fama in materia e, infine, da un professore ordinario di ruolo nei settori disciplinari direttamente attinenti alla sfera di competenza del singolo Comitato.

Insomma, fino ad ora eravamo in mano sicura se bisognava fare qualche lavoro al Colosseo o organizzare una mostra agli Uffizi: c’erano persone competenti a prendere decisioni. Da oggi non più: tutti i comitati, come detto, sono stati soppressi. Le decisioni verranno prese dai dirigenti ministeriali che tutto hanno meno che le competenze artistiche, letterarie e culturali necessarie: sarà curioso vedere come si muoveranno davanti a questioni delicate come lavori di restauro, mostre, acquisti.

Nessun ingente risparmio, dunque, ma spaventoso (e ingiustificato) taglio alle conoscenze. Un provvedimento, insomma, che non trova alcuna ragione di esistere. Semplice disinteresse? A voler essere buoni bisognerebbe pensare proprio di sì.

Eppure non è l’unico atto approvato dal governo – con l’avallo di Pd, Pdl e Udc – passato sotto silenzio. Lo stesso giorno in cui il Parlamento convertiva in legge la spending review, infatti, anche il dl Sviluppo andava incontro alla stessa sorte. Tutti ricorderanno di cosa trattasse questo decreto: bonus, incentivi, sgravi fiscali per imprese e famiglie. Insomma, altri provvedimenti in linea con la politica economica del governo. Eppure, tra le pieghe del decreto, spunta anche un’altra norma che, a ben vedere, poco (o nulla) c’entra con lo sviluppo. Articolo 8: “Grande evento EXPO 2015 e Fondazione La Grande Brera”. Dopo la conferma degli ingenti finanziamenti all’Expo nei primi commi (9.680.489 euro per il 2013, 8.661.620 euro per il 2014, 987.450 euro per il 2015), si arriva al punto cruciale e inaspettato. Comma tre: “A seguito dell’ampliamento e della risistemazione degli spazi espositivi della Pinacoteca di Brera e del riallestimento della relativa collezione, il Ministro per i beni e le attività culturali, nell’anno 2013, costituisce la fondazione di diritto privato denominata «Fondazione La Grande Brera», con sede in Milano, finalizzata al miglioramento della valorizzazione dell’Istituto, nonché – attenzione –  alla gestione secondo criteri di efficienza economica”. Ecco il punto: la pinacoteca nazionale di Brera diventa Fondazione aperta ai privati finalizzata “alla gestione secondo criteri di efficienza economica”.

Non solo. Insieme all’intera collezione finiranno nelle mani della Fondazione anche l’Accademia di Belle Arti, la Biblioteca Nazionale Braidense, l’Osservatorio astronomico, l’Orto botanico, l’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere. Tutti edifici ancora in piedi e, per così dire, attivi e funzionanti.

Il silenzio di media e politica, anche in questo caso, è stata imbarazzante. L’unico a interessarsi della vicenda presentando un ‘interrogazione parlamentare è stato Antonio Di Pietro, il quale ha osservato altri due aspetti non secondari. Uno. Il provvedimento stabilisce una dotazione di 2 milioni di euro da parte del ministero per i beni e le attività culturali e non sono contemplate altre erogazioni per le attività del museo (comma sei): non essendo previsti altri contributi per le iniziative di sviluppo e di valorizzazione del patrimonio culturale, è facile immaginare che si profili il rischio di un disimpegno del ministero stesso. Due. “Il provvedimento – dice il leader Idv nella sua interrogazione – non vincola la nascente formazione ad avvalersi di personale appartenente ai ruoli del Ministero per i beni e le attività culturali […] ma ne prevede solo la possibilità”. Il comma 7 infatti recita: “la Fondazione può avvalersi di personale appartenente ai ruoli del Ministero per i beni e le attività culturali e degli enti territoriali che abbiano acquisito la qualità di soci promotori”. “Può” avvalersi. Il rischio, in altre parole, è che in ogni momento potrebbe essere tagliato definitivamente il cordone ombelicale che lega la Pinacoteca al ministero.

Insomma, a conti fatti è stato fatto un primo (importante) passo verso la privatizzazione della cultura. Con due provvedimenti cuciti dentro riforme che non c’azzeccano niente. E il ministro Ornaghi? Cosa dice? Nulla. Nessuno l’ha chiamato in causa in queste decisioni. Nessuno l’ha interpellato. E lui, dal canto suo, non disturba. Semplicemente, accetta.