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8 marzo, donne e lavoro: quando non c’è proprio nulla da festeggiare

Sono passati oltre cento anni da quando venne istituita la giornata mondiale della donna. E l’attuale situazione socio-economica del genere femminile non è certo delle migliori, tra lavoro precario, nero e maschilismo imperante. Andiamo a vedere nei dettagli numeri e cifre che rendono conflittuale il rapporto tra donne e lavoro…. Davvero c’è qualcosa da festeggiare?

Era il 1909 quando negli Stati Uniti d’America è stata istituita la giornata mondiale della donna. Tre anni dopo è stata estesa anche all’Europa: oggi quindi cade il centenario di quelle celebrazioni nate dalla morte di numerose operaie in un cotonificio americano, dove non veniva rispettata alcuna norma di sicurezza. Tutte loro volevano protestare ma il datore non glielo permise.

Cento anni dopo sembra che la situazione non sia cambiata poi di molto, la cultura predominante maschile ancora imperversa e le donne sono costrette a subire condizioni di lavoro privative e sacrificanti. Un parallelo è d’obbligo in questa giornata.

Per capirlo torniamo alla sera del 4 ottobre 2011, quando i mass media devono scegliere a quale tipo di donna dare prevalenza nelle loro notizie.

Da una parte c’è Meredith Kercher e il processo d’appello ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito: una storia condita da sesso, sangue e tanto tanto mistero che rappresenta il corpo femminile molto spesso merce per omicidi passionali e stupri.

Dall’altra parte ci sono cinque operaie di poco più di trenta anni che muoiono sotto il crollo della loro fabbrica di Barletta, posta al primo piano di un palazzo e senza norme di sicurezza, nelle stesse condizioni – e a distanza di cento anni – delle lavoratrici del cotonificio americano. L’azienda di Barletta era sconosciuta all’Inps e le donne costrette a prestare la loro opera per quattro euro l’ora.

Cosa accadde allora?

Spazi e talk show per Amanda e Meredith, a fronte di pochi secondi per quelle donne che faticavano anche dodici ore al giorno, per portare un pezzo di pane a casa.

Secondo gli ultimi dati Istat, in Italia sono 1,4 milioni le donne invisibili che alimentano l’occupazione sommersa: la maggioranza si concentra al Nord (il 65% del totale), a differenza del sommerso maschile, in massima parte presente al Sud.

Maggiore preoccupazione desta il dossier Svimez, “La condizione e il ruolo delle donne per lo sviluppo del Sud”, presentato a febbraio di quest’anno: nelle regioni meridionali del nostro Paese una giovane su quattro è disoccupata, mentre sono circa 500 mila le donne non censite perché in nero o comunque con contratti non regolari.

Insomma, al Sud, alla fine dei conti, il tasso reale di disoccupazione femminile arriverebbe a toccare il 30,6% contro il 18% del dato nazionale. Questo accade perché la donna del 2012 forse è anche più vessata di quella di trenta anni fa. Deve contribuire al bilancio familiare al pari dell’uomo ma è costretta, soprattutto nel Sud Italia, a portare avanti quasi da sola i lavori di casa.

Una cultura difficile da sradicare soprattutto quando l’uomo continua nel suo essere padre padrone. In molti casi la donna proprio per questo motivo decide di lavorare in nero, come dimostra la ricerca dell’ISFOL, “Dimensione di genere e lavoro sommerso. Indagine sulla partecipazione femminile al lavoro nero e irregolare”.

In queste pagine c’è un’ampia raccolta di dati dove si raccontano le motivazioni che spingono il genere femminile a ripiegare sull’occupazione in nero: oltre il 40% non ha altra scelta; il 6% cerca un secondo stipendio (“per arrotondare”); il 4% – e qui, chiaramente, parliamo soprattutto di straniere – per avere un alloggio.

E infine c’è anche un altro 4% che dichiara di preferirlo il lavoro in nero per avere un guadagno al netto, per evitare cioè di pagare i contributi. Al solito, dunque, per evadere.

Ma l’istituto fornisce altri dati molto interessanti.

Il 13% delle donne che lavorano in nero ha una laurea, il 20% un diploma di scuola superiore; quasi la metà è convinta che non avrà mai un lavoro regolare, il che, per molte, non necessariamente è un dramma: 1 su 5 dichiara, infatti, di essere assolutamente soddisfatta della propria occupazione irregolare.

Tutto questo, però i dati non lo sottolineano, avviene anche per poter essere indipendenti economicamente dal proprio uomo, anche per poter essere libere di andare via dalla propria casa qualora si dovessero presentare problemi di natura relazionale, purtroppo all’ordine del giorno nelle coppie moderne.

Ma qual è la relazione tra donne e famiglia? Quelle tra i 25 e i 54 anni che si occupano dei figli, della famiglia, dei parenti bisognosi sono, in Italia, 8 milioni 378mila. Lo ha certificato l’Istat nel suo ultimo rapporto «La conciliazione tra lavoro e famiglia». Di queste, il 68,8% al Centro/Nord e il 34,6% al Sud e nelle Isole ha un reddito e risulta attiva nel mercato del lavoro. Nel 90% di questi casi, le donne partecipano attivamente, con oltre il 40%, alla formazione del reddito familiare. Il dato è molto lontano da quello del resto del vecchio continente.

Nel Nord Europa circa l’80% delle donne ha un impiego part-time e contribuisce al reddito familiare oltre che a garantire la propria presenza in famiglia. Secondo l’Istat, le donne italiane, invece, hanno una totale sfiducia nell’inserimento nel mercato del lavoro soprattutto perché ad una donna che ha marito e figli è spesso consentito soltanto un lavoro saltuario, che il più delle volte è in nero o comunque irregolare.

La mancanza di prospettive rende le donne più instabili e più timorose nell’affrontare il futuro, sono soprattutto le madri di famiglia le prime vittime della crisi economica, come abbiamo evidenziato anche nell’inchiesta “Sexygate”, dove è prorio la crisi a spingere alcune insospettabili mamme di famiglia nel tunnel della prostituzione.

Tutto questo incide anche e soprattutto sulla voglia di mettere al mondo figli. La flessibilità del mercato ha indotto le fabbriche e i datori di lavoro a non tutelare la donna incinta: secondo il rapporto dell’ISFOL c’è una netta caduta dell’occupazione determinata, appunto, dalla maternità. Se prima della nascita di un figlio lavorano 59 donne su 100, dopo quello che dovrebbe essere un lieto evento a lavorare ne restano soltanto 43. Non aiutano in questo senso le nuove forme di contratto precario, e ci riferiamo soprattutto ai co co co e i co co pro: si tratta infatti di forme di lavoro che terminano dopo tre mesi, sei mesi o anche un anno e per chi nel frattempo ha avuto un bambino la possibilità di riprendere quel posto di lavoro è pari a zero.

Spesso alle donne i soldi non bastano e per questo si ritrovano costrette ad “accettare” anche reati sul posto di lavoro, che quando va bene si fermano al mobbing e quando va peggio possono trasformarsi in molestie sessuali e anche in stupri tra le mura di uffici e fabbriche. In Italia il 90% dei reati che gli uomini compiono sulle donne sul posto di lavoro non vengono denunciati.

Questo avviene innanzitutto a causa della crisi economica. Le donne non portano a galla i crimini che avvengono sul proprio corpo per paura di perdere il posto di lavoro.

A questo quadro socio-economico inquietante fanno da contraltare i dati che riguardano la diminuzione delle donne disposte ad essere soltanto casalinghe.

È diminuito il numero di quelle presenti tra le donne non anziane (fino a 64 anni di età): 833mila in meno tra il 2000 e il 2010 (-13,8 per cento); particolarmente intensa la riduzione tra le donne più giovani, fino a 34 anni (342mila casalinghe in meno, -29,4 per cento) e tra le 35-44enni (299mila in meno, -18,8 per cento), mentre tra le donne di 45-54 anni le massaie sono diminuite dell’8,8 per cento (-146mila) e del 2,8 per cento (-47mila) tra le 55-64enni.

Come leggere questi dati? Aumenta il lavoro precario e, soprattutto, quello in nero. E la donna non ha proprio un bel niente da festeggiare.