MISTERI D’ITALIA/ Antonio Varisco, dagli anni di piombo la stessa domanda: perché proprio lui?
Una morte anomala e mai del tutto chiarita. Venerdì 13 luglio 1979, ore 8:25. Sul Lungotevere Arnaldo da Brescia la BMW del tenente colonnello Antonio Varisco si sta dirigendo verso la Procura di piazzale Clodio, dove il carabiniere presta servizio come comandante del Nucleo traduzione e scorte del Tribunale di Roma. Erano gli Anni di piombo, gli anni del terrorismo rosso e nero, che colpiva al cuore le istituzioni.
È questione di pochi istanti. Due vetture affiancano la macchina dell’ufficiale, lanciano bombe fumogene marca Energa ed esplodono diciotto colpi di arma da fuoco con fucili a canne mozze, che frantumano il lunotto posteriore e, in breve, raggiungono il corpo del colonnello, ponendo fine – in modo drammatico e truce – alla sua esistenza. Antonio Varisco aveva appena cinquantadue anni.
Il dolore e lo sgomento per la morte di un ufficiale apprezzato, all’interno della città giudiziaria, per la sua competenza e la sua gentilezza da chiunque si era trovato a lavorare con lui (come, a esempio, dal sostituto procuratore Domenico Sica, che si occuperà anche di una prima fase investigativa sulla tragica morte dell’amico), si unisce a una lunga catena di domande, dubbi e interrogativi. Che in trentadue anni sono scivolati nelle retrovie di un evento tanto cruento quanto choccante, ma che ora meritano di essere riportate alla luce. Perché proprio Antonio Varisco?
Erano gli “Anni di piombo”, erano frequenti attentati terroristici contro uomini delle istituzioni – nel 1978 era stato sequestrato e ucciso il presidente della DC Aldo Moro dalle Brigate Rosse (almeno parte di loro aveva preso parte ai fatti di via Fani), il 30 gennaio del 1979, a Milano, Prima Linea aveva assassinato il giudice Alessandrini e il 23 giugno 1980 militanti dell’estrema destra spareranno al giudice Mario Amato – “colpevoli” con il loro lavoro di essere assurti a nemici della rivoluzione (per i “rossi”) o del sovvertimento dell’ordine democratico (per i “neri”).
Ma Antonio Varisco, però, nonostante da dieci anni fosse a capo del servizio di scorta dei magistrati, dirigendo la sicurezza all’interno del palazzo di giustizia, organizzando i trasferimenti dei detenuti nelle carceri e presenziando anche in aula ai processi contro i vari terroristi a quel tempo alla sbarra, quella mattina di quel 13 luglio non era più tutto questo. Almeno da qualche mese, da quando aveva rassegnato le dimissioni (accettate) dall’Arma dei Carabinieri, che avrebbe lasciato proprio alla fine di luglio per andare a svolgere un lavoro di sicurezza per conto di un’azienda privata di un amico nel Nord Italia.
Viene allora da chiedersi: perché giustiziarlo? Perché eliminare a tutti i costi un personaggio ormai fuori dai giochi, che aspettava soltanto il tempo dovuto per uscire definitivamente di scena?
Qualche ora dopo l’attentato, una telefonata anonima all’ANSA rivendicò l’uccisione: “Qui le Brigate Rosse. Abbiamo giustiziato il colonnello Varisco, braccio destro del generale Dalla Chiesa. Dopo tanti crimini era l’ora che anche lui pagasse il debito”. Due giorni dopo, un volantino con una stella a cinque punte e una sigla al tempo arcinota confermarono l’identità dei killer. Testuale: “Risultato della lotta di luglio: 1 a 0 = Varisco”. Parole che trovavano conferma in una sua fotografia, corredata dal nome, sulle liste di proscrizione rinvenute nell’appartamento di viale Giulio Cesare dove abitavano vertici delle BR quali Adriana Faranda e Mario Moretti.
Eppure la presenza scenica delle Brigate Rosse non sgombra il campo delle anomalie dalle ombre che ammantano la morte dell’ufficiale nato a Zara, in Dalmazia, nel 1927. Le armi usate, pallettoni e fucile a canne mozze, erano insolite per i brigatisti e ricordano più gli agguati di stampo mafioso. Eppure, dopo essere stato arrestato nel 1982, il leader della colonna romana BR Antonio Savasta si assumerà le responsabilità dell’omicidio e, più tardi, quando sarà catturata nel 2004, anche Rita Algranati (la “compagna Marzia”, la donna col mazzo di fiori a via Fani) affermerà d’aver fatto parte di quel commando.
Tutto ciò, però, appare sufficiente a giustificare l’accanimento contro un uomo che sarebbe andato in pensione a pochi giorni e, quindi, sarebbe risultato estraneo, da quel momento in avanti, alla guerra “Stato/lotta armata”?
Specialmente, poi, se si considera il momento storico: siamo nel 1979, le Brigate Rosse si sono ormai imposte sulla scena nazionale con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, non hanno bisogno di altri colpi tanto eclatanti per affermare la loro esistenza.
Le indagini condotte dalla Procura di Roma, accreditando la versione di Savasta, hanno finito per considerarle mandanti ed esecutrici del delitto. Ma qualcosa non quadra, specialmente quando – sulla scena dell’omicidio Varisco – compare un’altra morte. Quella di Francesco Straullu, ottobre 1981, ufficiale della Digos amico del colonnello, che aveva cominciato a indagare sul delitto prendendo, però, in considerazione la pista dell’estrema destra. Perché? Straullu non pensava fossero state soltanto le BR. Un ragionamento, forse, figlio della storia lavorativa di Varisco, che nei suoi anni di servizio, tra le altre, si era occupato dello scandalo Lockheed, dello scandalo Italcasse, la Rosa dei Venti e, aspetto singolare e non secondario, le indagini su una loggia segreta, che si riuniva a Roma in via dei Condotti, sospettata di massoneria. Quella Loggia era la P2 di Licio Gelli, quell’indagine era del 1975, e porterà Varisco a imbattersi nei nomi di alcuni superiori, fra i quali il generale Santovito, capo del Sismi, il servizio segreto militare.
A incaricare Varisco di quell’indagine fu il giudice Vittorio Occorsio, poi ucciso il 10 luglio 1976 da Pierluigi Concutelli, terrorista di Ordine Nuovo, estrema destra.
Ma c’è di più. Il nome di Antonio Varisco ricorre anche nell’affaire Moro. Il colonnello aveva, infatti, un ufficio a piazza delle Cinque Lune, dove s’incontrò – il 6 marzo 1979 – assieme a un alto esponente dei carabinieri (si presume Dalla Chiesa) e il giornalista Mino Pecorelli, che in quei giorni rivelava parti inedite del memoriale Moro sulle colonne di OP e che verrà ucciso appena due settimane più tardi, poco prima d’aver promesso novità sconcertanti, sul prossimo numero della sua rivista, sempre in merito al memoriale scritto dal presidente della DC durante i giorni della prigionia.
Pecorelli e Varisco si conoscevano molto bene, al punto da incontrarsi almeno sei volte durante i cinquantacinque giorni del sequestro dello statista democristiano. Moriranno, come si è visto, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Nel 1982 toccherà poi al generale Dalla Chiesa.
La versione completa del memoriale Moro non è mai stata ritrovata. E le BR, in quel lontano 1979, erano già da cinque anni sotto la guida di Mario Moretti, uno che da giovane simpatizzava per l’estrema destra e, a sua volta, subordinato a Hyperion, la (presunta) scuola d’inglese parigina fondata da Corrado Simioni, personaggio facente parte del nucleo storico delle BR e poi separatosi da Curcio e Franceschini per divergenze programmatiche dovute alla molteplicità delle sue posizioni ambigue…
Nel 2009, a trent’anni dalla morte, la sorella di Varisco, Paola, ha voluto ringraziare l’Arma dei Carabinieri per non aver mai dimenticato la figura del fratello. Sul Lungotevere Arnaldo da Brescia c’è una stele che lo ricorda. Ma, oggi come ieri, alla luce di quanto emerso sulla figura di Varisco e le indagini da lui condotte, sulla struttura delle BR, su come alte figure delle istituzioni fossero iscritte alla massoneria segreta ed eversiva (la P2), su come la morte di questo alto ufficiale dei carabinieri s’intreccia con altre morti (Straullu) e con intrighi di portata internazionale (Moro), è lecito rilanciare una domanda precisa che necessita di una risposta altrettanto chiara: perché proprio Antonio Varisco?