Dossier Marcegaglia, l’oro dei rifiuti tossici
Gli ultimi dettagli del Dossier Marcegaglia, in cui viene fuori l’associazione a delinquere, la turbativa d’asta e soprattutto lo smaltimento illecito di rifiuti tossici.
di Carmine Gazzanni
Al momento, infatti, due sono le inchieste più scottanti che toccano la famiglia della Presidente di Confindustria. Nella prima ritroviamo ancora il rampollo Antonio, indagato per associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta. Questa volta Antonio, quale amministratore delegato dell’azienda di famiglia, compare nella lista di imprenditori che hanno messo su il consorzio Comast (Consorzio manufatti stradali), che raggruppava al suo interno otto grandi società italiane, “al fine di commettere più reati di turbata libertà degli incanti”, come affermato dal giudice per le indagini preliminari di Trento, Giuseppe Di Benedetto. In pratica, secondo l’accusa, la Comast avrebbe pilotato le gare per gli appalti delle barriere stradali (i guardrail in pratica), fino allo scioglimento del consorzio nel maggio del 2007.
L’indagine è partita nel 2007 stesso in seguito alla segnalazione dell’imprenditore Isnardo Carta, che riteneva ci fossero anomalie nell’assegnazione delle gare. Cosa che poi, stando a quanto sostiene l’accusa, si sarebbe dimostrata provata. Infatti, secondo gli inquirenti, “si suddividevano il mercato nazionale della vendita delle barriere stradali ad altre imprese o enti pubblici, mediante la ripartizione in quote predeterminate” e si “accordavano su quale delle aziende consorziate avrebbe dovuto approvvigionare il compartimento Anas”. Sarebbero state 16 le gare d’appalto aggiudicate in modo fraudolento per circa 180 milioni di euro, con un profitto illecito di circa 8 milioni di euro. Tant’è che il giudice già nell’agosto dell’anno scorso ha concesso il sequestro preventivo (sui conti della Marcegaglia S.P.A. sono stati congelati 2,1 milioni di euro). Oltre Antonio Marcegaglia altri indagati eccellenti (molti dei quali vicentini). Tra questi ricordiamo, ad esempio, anche Adriano Fracasso, veneziano titolare della Metalmeccanica Fracasso e vicepresidente dell’Associazione degli industriali italiani delle costruzioni metalliche, nonché figlio di Oreste, ex presidente di Confindustria Venezia.
Ma la famiglia Marcegaglia è implicata anche nel traffico di rifiuti tossici. L’inchiesta, denominata “Golden Rubbish” (rifiuti d’oro), coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Grosseto e condotta dal Comando Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente (C.C.T.A.), ha fermato un’organizzazione dedita al traffico illecito di rifiuti speciali, anche pericolosi, costituita in Toscana e precisamente a Grosseto ed avente diramazioni in Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Marche, Campania, Lazio, Abruzzo e Sardegna. Il caso scoppiò il 26 giugno 2008 con una tragedia: uno dei capannoni di Scarlino (provincia di Grosseto) esplose e nell’incendio un operaio rumeno di 47 anni, Martin Decu, morì mentre un suo compagno, Mario Cicchillo, rimase ferito.
E furono proprio i vigili del fuoco che impiegarono circa una settimana per domare le fiamme e bonificare l’area, a scoprire che a provocare l’esplosione era stata la fuoriuscita di propano causata dalla triturazione non corretta di circa 100 tonnellate di bombolette spray provenienti dalla “Procter & Gamble” (una della aziende coinvolte). E gli stessi vigili diedero l’allarme ai carabinieri del Noe (Nucleo Operativo Ecologico), i quali accertarono che l’impianto di Scarlino era utilizzato illegalmente per smaltire rifiuti pericolosi senza che ci fosse alcuna autorizzazione (si andava avanti con false certificazioni) né i mezzi per lo smaltimento.
Partendo da una tragedia, dunque, i pm hanno svelato un meccanismo messo in piedi da alcune aziende per fare soldi con lo smaltimento illecito di rifiuti tossici. La testa della piovra, per così dire, era la “Follonica Agrideco” (proprietaria dello stesso impianto di Scarlino) che si era legata ad un altro sito di stoccaggio in Abruzzo, a Lanciano precisamente. Secondo i carabinieri, le due imprese avevano il permesso solo per il trattamento di rifiuti normali, ma avevano cominciato a garantire prezzi competitivi ai loro clienti anche per lo stoccaggio dei rifiuti più tossici. Come? Tramite “la falsificazione di certificati di analisi, formulari di identificazione e registri di carico e scarico e di fine operazioni di trattamento”, come scrive Antonio Pergolizzi dell’Osservatorio Ambiente e Legalità di Legambiente.
Questo, chiaramente, permetteva lo smaltimento di rifiuti pericolosi e inquinanti in discariche adibite, invece, soltanto allo scarico e allo smaltimento di rifiuti non pericolosi. Le conseguenze? “Terra di bonifica inquinata, scarti industriali di mercurio, bombole di gas propano smaltite senza essere state svuotate e triturate”. E dunque, come abbiamo visto, la morte di poveri operai che lavorano negli stabilimenti.
Ma davanti al denaro e al ritorno economico nemmeno il rischio della morte (chiaramente altrui) tiene. E il ritorno era di quelli sostanziosi. Secondo i carabinieri, infatti, il traffico di scorie viaggiava per tutta la penisola grazie a 800 camion in movimento capaci di stoccare fino a 500 mila tonnellate di tossico all’anno. E di questi circa 80 mila finivano, chiaramente, nei due stabilimenti madre, a Scarlino e a Lanciano. Ebbene, questo traffico di rifiuti tossici, secondo gli inquirenti, è stato in totale di circa un milione di tonnellate, con un guadagno di svariati milioni di euro (si è calcolato che dal 2006 al 2009 l’Agrideco abbia fatturato 30 milioni di euro).
Ma a guadagnarci, chiaramente, anche le industrie che si sono rivolte ai due stabilimenti di stoccaggio, in quanto pagavano lo smaltimento ad un prezzo molto conveniente, in quanto non erano più tenute al pagamento dell’ecotassa regionale. Ed infatti, proprio per questo motivo, è stato calcolato un danno all’erario pubblico di diversi milioni di euro proprio per il mancato pagamento della tassa che le aziende sono tenute a versare per il trattamento e lo smaltimento di rifiuti tossici, presso discariche autorizzate.
Oggi le indagini sono ancora in corso, ma pare che la questione sia ancora tutta da approfondire. Per il momento sappiamo che il “sistema” coinvolgeva 61 persone e 20 aziende (oltre a Marcegaglia, anche Lucchini – il cui fondatore, Luigi, è stato anche lui Presidente della Confindustria – e la già citata “Procter & Gamble”) ; in più sono stati emessi ben 17 provvedimenti cautelari e 3 i sequestri preventivi.
Tra i coinvolti, chiaramente, anche Steno Marcegaglia, in quanto pare che l’azienda di famiglia si facesse smaltire dal racket enormi quantità di rifiuti di ogni genere. Senza contare, poi, che “nell’ambito della stessa inchiesta – scrive sempre Antonio Pergolizzi – è stato sottoposto a sequestro il laboratorio di analisi di Mantova della Made Hse, appartenente al gruppo Marcegaglia, per l’appunto, con l’accusa di aver redatto falsi certificati di analisi su rifiuti pericolosi provenienti dall’industria siderurgica Marcegaglia di Ravenna”. In pratica in questa struttura, braccio destro dell’azienda Marcegaglia, nella quale si sarebbero dovuti effettuare i controlli, secondo l’accusa, venivano redatte certificazioni false per permettere che i rifiuti tossici finissero nei due stabilimenti di stoccaggio a capo del sistema. Proprio per questo, oltre a Steno Marcegaglia, raggiunto da un avviso di garanzia in quanto Presidente del gruppo, un tecnico analista è stato arrestato e quattro manager della società sono indagati.
E chissà che non ci sia anche lo zampino delle mafie che, come si sa, annusano grandi affari quando si parla di rifiuti e di smaltimento. A questo punto, in tutto questo marciume, il dubbio è più che fondato.