Istruzione, studenti italiani pari o superiori ai colleghi europei ma non trovano lavoro. Perchè?
Parità di requisiti, parità d’offerta? Non è detto: diplomati e neolaureati di Parigi, Stoccolma o Berlino conseguono risultati simili ai colleghi italiani, ma trovano più chance di assunzione. Ecco perché in un’inchiesta del Sole24Ore.
In Paesi come Francia, Svezia e Germania i neolaureati assunti a sei mesi o meno dalla fine degli studi sfiorano il 90% del totale. Ma sono davvero più competenti di quelli italiani? I numeri dicono di no. Dati Ocse e Pisa alla mano, giovani e giovanissimi del nostro Paese conseguono risultati simili o migliori a quelli degli studenti Ue. Ma incappano in un sistema ben diverso. A parità di condizione e curriculum, vediamo cosa privilegia gli under 30 di Parigi, Berlino e Stoccolma e cosa si inceppa in Italia.
Nelle Francia delle Ecoles e delle rette low cost, gli studenti non brillano per consapevolezza (e motivazione) nella scelta della facoltà. Secondo un report McKinsey, almeno due terzi di chi ha intrapreso una laurea o un corso di formazione «non rifarebbe la stessa scelta» se potesse tornare sui banchi delle superiori.
Il quadro non migliora sul fronte delle skills, le abilità richieste dal mercato professionale: più di un datore di lavoro su tre (35%) parla della «carenza di competenze» come una zavorra sulla crescita del suo settore di business. Resta il fatto che i tassi di disoccupazione giovanile e “Neet” (giovani che né lavorano né studiano), secondo le ultime stime Eurostat, viaggiano sul 25,6% e 12%: quasi la metà dei 41,6% e 21% registrati in Italia. Cosa fa la differenza? Stage e agenzie di lavoro.
I tirocini, intrapresi in Francia dall’87% degli studenti, garantiscono un rialzo del 36% sulle chance di assunzione. In Italia, a parità di condizioni, non si va oltre il 6%. La forbice si allarga (ancora) di più sul fronte di career service e/o agenzie per il collocamento: efficienti dall’altro lato delle Alpi, improduttive o disertate in Italia. Tra diplomati e neolaureati francesi, il 60% ha trovato assistenza per la stesura del curriculum e il 53% per la preparazione di domande di lavoro e/o colloqui, con percentuali di soddisfazione del 78% e dell’83%. In Italia, nei nostri Centri di Impiego, passa solo l’1% delle assunzioni.
I più ottimisti lo liquidano come un deficit «emotivo». Ma nel giro di 10 o 20 anni potrebbe tradursi in un boomerang sulle nuove generazioni di Stoccolma: gli studenti svedesi sono tra i «meno motivati» d’Europa sui banchi di liceo e università.
Sempre secondo il report McKinsey, il 41% dei maturandi ha rinunciato o potrebbe rinunciare all’immatricolazione a un corso di laurea triennale per mancanza di interessi, stimoli o informazioni su piani didattici e sbocchi professionali. Non va meglio nell’equivalente delle nostre scuole superiori, in stato d’allarme dopo i risultati dei test Pisa 2012: i quindicenni svedesi hanno centrato punteggi sotto la media Ocse in lettura (483 contro 496), matematica (478 contro 494) e conoscenze scientifiche (485 contro 501). I coetanei italiani viaggiano rispettivamente su 490, 485 e 494. Il gap a favore della Svezia si scava tutto in un sistema di welfare e/o incentivi che riduce ad appena l’8% il totale dei Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) e traccia la via di una percentuale di occupati in età adulta al quinto posto su scala Ocse: il 74%, contro il 57% che sbalza l’Italia al 33esimo gradino sui 36 del Better Life Index 2013 dell’istituto parigino.
Tra rette gratis, prestiti a tasso zero o vantaggioso e le migliaia di borse di studio elargite su selezione dagli enti governativi, lo studio e il conseguimento di una qualifica diventa più una questione di convenienza che di verve accademica, Soprattutto se si considera una corrispondenza sopra la media Ocse tra grado di qualifiche e scatti di carriera: più hai studiato, più hai chance di trovare lavoro. In Svezia è sotto contratto l’89% dei cittadini cono «almeno» un titolo di educazione terziaria (lauree, diplomi o certificazioni), contro il 49% di chi non è andato oltre le superiori. In Italia la proporzione si restringe a 74% e 44%.
Le premesse sono note: la Germania ha reagito alla crisi con un tasso di disoccupazione giovanile stabile o addirittura in discesa (8,5% nella fascia tra 15 e 24 anni secondo l’ultimo Ocse Better Life Index) e una percentuale record di laureati sotto contratto a sei mesi o meno dalla tesi: l’89%, quasi 9 su 10.
Qualche crepa, però, si infila anche nella “pagella” di giovani e giovanissimi tedeschi: secondo le stime del Bundensbargur for Arbeit, l’agenzia di lavoro della Germania, il 12% degli studenti sotto apprendistato non completa il suo periodo di formazione e il 30% degli universitari abbandona gli studi prima della laurea. In più, il “mismatch” tra teoria e competenze professionali denunciati in Italia si rispecchia anche in Germania: solo il 43% dei datori di lavoro considera «adeguatamente preparati» i giovani formati da istituti e atenei dei 16 land tedeschi. Il divario con l’Italia si registra nel «dual education system», il sistema di alternanza scuola-lavoro introdotto per legge nel 1969. Il governo tedesco autorizza più di 300 formule di apprendistato diverse, frequentate dal 60% degli studenti di scuola superiore. La retribuzione, per i giovani alle primissime armi, viaggia sui 650 euro e traina l’equivalente di un nostro stagiaire verso l’assunzione a tempo indeterminato.
Basterebbe lo “shopping” di nostri talenti in Germania, Stati Uniti e Cina per certificare la qualità del sistema italiano all’interno e all’esterno dei confini Ue. Laureati e professionisti under 30, dal Politecnico di Milano alla Sapienza, sono richiestissimi da mercati e college stranieri, con offerte incomparabili a quelle che riceverebbero (o non ricevono…) in Italia.
Ma c’è un record, in positivo, meno noto di altri: stando al Better Life Index dell’Ocse, l’Italia è tra i paesi più democratici nella diffusione di cultura e conoscenze primaria. Nel dettaglio, lo scarto tra l’educazione percepita dal 20% di popolazione più abbiente e il 20% di fasce più deboli di cittadini non supera gli 87 punti: 12 in meno rispetto a una media Ocse di 99 e 25 sotto al controesempio di categoria, gli Stati Uniti. Nel gigante nordamericano, scisso a metà tra l’eccellenza dei top college e scuole pubbliche in stato di semiabbandono, il dislivello di qualità educativa tra fasce alte e basse della popolazione vola fino ai 112 punti.
Mismatch, alternanza scuola-lavoro, internazionalità. Sono solo tre fra i talloni d’Achille registrati con più frequenza in Italia. Il mismatch è il divario tra teoria e abilità richieste dal mercato, le cosiddette skills: secondo un’analisi McKinsey, nel solo 2012 sono rimaste scoperte più di 65mila posizioni vacanti per carenza di profili adatti nell’offerta di under 30.
L’alternanza scuola-lavoro, come accennato nella scheda sulla Francia, è ferma al palo con stage poco diffusi (registra un tirocinio solo il 46% dei giovani, contro una media Ue del 61%), sottopagati e ininfluenti sulla carriera successiva: se il 60% di studenti tedeschi iscritti a un programma di apprendistato trova lavoro o si orienta con decisione per il futuro, trimestri o addirittura anni di stage alzano di appena il 6% la probabilità di assunzione.
Altro gap: l’internazionalità, intesa sia come competenze ridotte con le lingue straniere sia come apertura internazionale della formazione accademica e lavorativa. La terza edizione dell’indice di conoscenza dell’inglese a firma di Ef/Epi relega l’Italia tra i paesi a «basso livello di competenza» con un punteggio di 50,97, sotto alla Russia (51,08) e sopra a Cina e Francia (50,77 e 50,33).
Qualcosa si sta muovendo, visto il progresso di quasi 2 punti rispetto alla “pagella” precedente. Ma è ancora poco, soprattutto per l’attrattività di matricole dall’estero: negli atenei italiani gli studenti stranieri sono circa il 3,5%. In Germania il 10%.