Il ministro Lupi cerca di valorizzare gli aereoporti fantasma
Undici scali strategici, 26 di interesse nazionale. Secondo il ministro delle Infrastrutture del governo Letta ogni regione dovrebbe avere il suo hub. Anche se servono a poco. E costano troppo. Come il caso-simbolo di Brescia: 50 milioni di euro di perdite per poco più di 10mila passeggeri.
Le cattedrali del deserto hanno messo le cinture e sono atterrate ovunque. Mega aeroporti per piccoli centri, hub ogni trenta chilometri. La voglia di gigantismo degli enti locali ha portato al paradosso di partire dal giardino di casa per arrivare ovunque, collegando posti poco gettonati con mete sconosciute. Il nulla unito via cielo al nulla. Un sogno diventato un buco nero. Eppure sono anni che girano a vuoto gli scali di provincia: pochi passeggeri, costi fuori misura, clientelismi, compagnie che scappano.
Ecco cosa succede a cavallo tra Lombardia e Veneto. Le due regioni hanno unito le forze per costruire in pochi mesi l’aeroporto Gabriele D’Annunzio, sorto nel 2002 a Montichiari, venticinque chilometri da Brescia, senza badare a spese: tremila metri di pista, torre di controllo con due uomini radar sempre al lavoro, e poi vigili del fuoco, poliziotti, doganieri in servizio sulle 24 ore, addetti ai bagagli, alle pulizie, ai metal-detector. Tutto il necessario per funzionare al meglio. Peccato che oggi sia un aeroporto fantasma.
Nell’ultimo anno sono atterrati 10.311 passeggeri: meno di trenta al giorno. Gli unici clienti sono gli aerei con il logo di Poste Italiane con stive piene di lettere e missive da smistare. Con costi da guinness dei primati: in dieci anni ha generato circa 50 milioni di euro di perdite. Era nato con uno scopo preciso, trasferire il traffico di Verona per il tempo necessario a rifare le piste venete. E per il dopo era già pronto un incarico su misura: terminal lombardo del traffico di merci in arrivo dai cargo. Nonostante i numeri impietosi, gli amministratori ci credono ancora, con la prospettiva di passare entro il 2030 a un milione e cinquecentomila utenti.
Un’utopia? Non per il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi che nel piano per gli aeroporti presentato il 17 gennaio scorso non dimentica certo la sua Lombardia e Montichiari. Sono undici gli aeroporti strategici (da Fiumicino a Malpensa) e altri 26 quelli di interesse nazionale individuati dal governo Letta: in pratica si è deciso a tavolino che ogni regione deve avere uno o più scali di riferimento, anche se di fatto i passeggeri sono inferiori ad un centro commerciale. Così Montichiari è rientrato tra quelli da premiare, perché prima o poi diventerà fondamentale per le merci. Con la stessa dignità di Linate (il city airport di Milano) e Bergamo che insieme hanno attirato nel 2013 oltre diciotto milioni di clienti. In ballo c’è una pioggia di soldi pubblici per le infrastrutture che dovranno migliorare l’accessibilità, i collegamenti viari e ferroviari e la costruzione di nuove piste.
«È una follia» commenta Marco Ponti, docente di economia dei trasporti al Politecnico di Milano: «invece di responsabilizzare le gestioni costruendo le piste dove servono e non dove non atterra più nessuno, si decide a Roma di buttare denaro pubblico per scali inutili». Nonostante la domanda e l’offerta di voli cambi con ritmi forsennati in base alla crisi e alle scelte delle compagnie aeree, il dado per Lupi è tratto: entro giugno quelli irrinunciabili e beneficiati della mano pubblica cresceranno fino a trentasette.
DA PASSERA A LUPI CRESCONO GLI SCALI
Eppure un anno fa l’ex titolare delle Infrastrutture Corrado Passera aveva dato il via ad una riforma attesa da trent’anni. Nell’era della spending review solo trentuno aeroporti sono indicati come di primaria importanza. Soprattuto vengono messi alcuni paletti alla voglia di gigantismo locale, tagliando le ali a nuovi progetti. Finiscono in un cassetto i piani folli di partire in aereo da Grazzanise (settemila anime in provincia di Caserta) e Viterbo, già servite egregiamente da Napoli e Roma.
I big mantengono la concessione e gli interventi di ristrutturazione e ammodernamento a carico dello Stato. Tutti gli altri, per continuare ad essere operativi, dovranno autofinanziarsi attraverso risorse proprie o degli enti locali. Una riforma dettata dalla logica: il Governo decide dove mettere i soldi solo per I terminal veramente utili. Per gli altri deciderà il mercato.
Dagli anni ottanta la mancanza di una regia unica ha prodotto un eccesso: troppe piste, mal gestite e in concorrenza tra di loro. Da Torino a Trieste possiamo scegliere tra 20 diversi check-in in meno di 600 chilometri, in media uno ogni trenta. E non basta. Ripianare i buchi delle società che li gestiscono costa 60 milioni di euro all’anno: cifra che si accollano i contribuenti italiani. Sono più di venti gli aeroporti da anni in profondo rosso. Gestioni allegre da Bolzano a Palermo, passando per Verona, Rimini, Parma, Siena e Salerno.
STOP AND GO A SALERNO
Un caso paradossale è quello di Salerno. Chiuso da quasi due anni è nato come una piccola pista di atterraggio per spegnere gli incendi. Nei sogni della Provincia, Comune e Camera di commercio, Pontecagnano doveva diventare la porta per la costiera amalfitana e servire mezza Basilicata, grazie alla sua posizione strategica a sedici chilometri a Sud del capoluogo. Staccato un assegno da sei milioni di euro il risultato è magro: dal 2007 ad oggi è stato chiuso per tre volte. L’ultimo stop and go nell’estate 2012, quando sul primo volo diretto a Milano Malpensa era presente un solo passeggero. La colpa sembra sia stata del prezzo eccessivo del biglietto, 180 euro, più salato dell’altà velocità. Poche settimane e si chiude di nuovo.
Così anche il sogno del pareggio di bilancio per la società “Aeroporto di Salerno spa” svanisce. In più si è messa pure la giustizia amministrativa a sospendere la gara per l’affidamento della gestionedello scalo a una società privata. Di lavori di allungamento della pista, ovviamente, non se ne parla neanche.
«L’aeroporto di Pontecagnano – attacca il parlamentare Pd Fulvio Bonavitacola – è inserito tra quelli di interesse nazionale ma non ha le caratteristiche: la pista è di soli 1500 metri, inadeguata ai grossi aerei e senza una vera stazione di controllo. Aperto per scopi elettorali ora è di trasformarlo finalmente in un terminal moderno». Dopo il flop dell’ultima stagione estiva, con voli mai atterrati, oggi ogni collegamento è sospeso e anche il sito web alla voce orario dei voli è eloquente:«disponibile a breve». Venti mesi di fermo non hanno impedito però di entrare nella fortunata lista governativa.
CORTOCIRCUITO IN ABRUZZO
Nella babele degli aeroporti italiani è difficile parlare un’unica lingua: abbiamo 112 scali da Lampedusa a Bolzano, 90 aperti al solo traffico civile, 11 in coabitazione con i militari e altrettanti in uso esclusivo delle forze armate. Quarantasei sono quelli commerciali, costruiti per promuovere lo sviluppo economico o turistico di un’area e sotto la spinta della politica locale diventati «indispensabili» ad ogni latitudine.
Perfino in regioni poco popolate come l’Abruzzo che supera di poco gli abitanti di Milano: Il grado di hub di prima classe è arrivato anche per Pescara. Un miracolo perché da mesi si rischia di perdere la corsa dei soldi pubblici. Per capire il cortocircuito bisogna partire dalla scorsa estate. È agosto quando viene cancellato il volo postale notturno. Conseguenza immediata: non si tiene più aperto 24 ore ma si scende a 18. Pochi i 540 mila passeggeri nell’ultimo anno per giustificare turni notturni, ma con lo scartamento ridotto si rischia che l’Enac, l’arbitro nazionale dei voli, sancisca il definitivo declassamento a terminal di serie B. Facendo saltare posti di lavoro e i finanziamenti promessi da Roma.
Il Comune è corso ai ripari garantendo che dal prossimo giugno arriveranno turisti da Mosca (grazie ad un nuovo low cost) e impegnandosi per tornare alla piena efficienza. Entro pochi mesi si saprà del futuro dell’aeroporto internazionale, ma intanto un’altra tegola potrebbe mettere parola fine ai sogni di volare dall’Adriatico: bloccati 5 milioni e 500 mila euro di fondi regionali per il piano marketing destinato al rilancio e la promozione. Bocciato dalla Corte Costituzionale che l’ha giudicato come «un aiuto di Stato non autorizzato». Forse prima di far piovere altri soldi e incappare in un altro stop è meglio sciogliere questo pasticcio.