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Massoneria, da Mani Pulite alla trattativa: un’ombra costante presente sullo Stato

Tutto ebbe inizio nei primi anni Novanta. Per l’esattezza, era il mattino del 17 febbraio 1992. Quel giorno, il pm di Milano Antonio Di Pietro, attraverso un ordine d’arresto, inaugurava una delle stagioni più importanti della storia recente del nostro Paese, in grado di stravolgere gli assetti istituzionali e spalancare così la porta alla Seconda Repubblica. Mario Chiesa, “il mariuolo isolato” del Psi, veniva arrestato mentre intascava una bustarella dall’imprenditore monzese Luca Magni, dando di fatto il via a Tangentopoli.

 

Fu una vera e propria rivoluzione: una serie di indagini giudiziarie, condotte a livello nazionale, portarono alla luce un sistema di corruzione radicato in tutti i piani di potere; tentacoli di un malaffare che pervadeva l’intero impianto istituzionale italiano. Il mondo politico e finanziario venne stretto nella morsa del pool della Procura milanese – formato da Di Pietro, Davigo, Greco, Colombo, Parenti, Boccassini, Borrelli e D’Ambrosio – e partiti storici, come la Dc, il Psi, il Psdi e il Pli sparirono o furono fortemente ridimensionati, permettendo ad una nuova classe dirigente di farsi avanti e prendere il potere.

Nello stesso anno, a maggio, a Capaci, morì Giovanni Falcone e, appena 48 ore dopo, in un clima di caos, si tennero le elezioni per il Presidente della Repubblica, carica che venne assegnata al democristiano Oscar Luigi Scalfaro. Lo stesso, per inciso, che nel giro di un mese incaricò Giuliano Amato di formare un nuovo governo: dal Viminale, apparentemente senza motivo, sparì dunque Vincenzo Scotti, l’uomo che, assieme a Martelli, aveva varato il decreto che introduceva l’articolo 41bis. Al suo posto s’insediò Nicola Mancino, attualmente imputato nel processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia, relativa agli stessi anni: il ’92 e il ’93, il periodo delle stragi. 

Furono, questi, anni terribili, in cui l’antimafia venne profondamente ferita. L’intento di Cosa Nostra era innanzitutto quello di eliminare ostacoli –come Falcone- e, successivamente, di accelerare sul mantenimento dei patti che erano stati stipulati tra i boss e i politici. Tra questi, non sorprenderà, figurava anche l’alleggerimento del carcere duro. 
Improvvisamente, poi, Cosa Nostra smise di colpire. Gli attentati dinamitardi cessarono e la mafia tornò a compiere quell’opera di sommersione da cui pare star riemergendo soltanto ora, con le minacce ai magistrati. Il sangue nelle strade non era più quello di Falcone e Borsellino, in continente non si andava più ad attentare alle opere storiche. Non per questo il processo di destabilizzazione poteva dirsi concluso, in quanto uno stravolgimento nei palazzi di potere continuava a vedersi compiuto, grazie all’opera dei magistrati che, attraverso Mani Pulite, proseguivano con le indagini e gli arresti. Il tutto mentre a Milano, Cosa Nostra riusciva ad insediarsi, intessere rapporti con Dell’Utri e facilitare di fatto l’ascesa politica di Silvio Berlusconi, nemico numero uno di Antonio Di Pietro e più che coinvolto in Tangentopoli. 

La magistratura, in breve, fu soggetta ad un’immane opera di delegittimazione. Di Pietro finì nel mirino non solo della politica che lo vedeva come il fautore del terremoto istituzionale, ma anche della mafia. Alcuni pentiti spiegarono che le cosche erano intenzionate ad eliminarlo in rapporto ad un “favore” da ricambiare a un politico del Nord, mentre la famigerata “Falange Armata”, un’organizzazione riconducibile a Cosa Nostra e a Gladio, lo minacciava di morte. Quella stessa Gladio che, come ebbe a dire Licio Gelli in un’intervista del 2011, apparteneva a Cossiga, mentre lui stesso possedeva la P2. Ed è qui che tutto si complica, in un intreccio di poteri difficilmente districabili, nel quale non si riconoscono più i buoni e i cattivi. 

Non sono in pochi infatti ad essersi domandati come mai lo scandalo di quegli anni abbia interessato una sola frangia politica. E ancor meno sono coloro che hanno visto nell’interruzione delle indagini una sconfitta della legalità, perché se è vero che Mani Pulite è terminata, è altrettanto vero che Tangentopoli continua fino ai giorni nostri; che la corruzione persiste e tocca ogni partito, indifferentemente. Per questo, qualcuno non ha esitato a intravedere, dietro tutta l’importantissima operazione giudiziaria, una mano occulta, un burattinaio che risponde al nome di massoneria.

Qualcuno che, forse cercando di delegittimare ulteriormente quei giudici, forse cercando di trovare la verità con un moto di coraggio assolutamente non irrilevante, ha riconosciuto in tutta l’inchiesta il tentativo di coprire i “muratori”. Un’ipotesi terribile, più volte smentita dai diretti interessati, ma che trova ora una –seppur piccola- conferma nelle dichiarazioni di una donna che, negli stessi anni, lavorava come domestica presso il piduista legato a Cosa Nostra, Gelli. Secondo essa, nel periodo in cui l’Italia era posta in ginocchio dallo scandalo di Mani Pulite, un “importante magistrato collegato al pool” si recava “in veste tutt’altro che ufficiale” presso Villa Wanda, intrattenendosi convivialmente con il Venerabile padrone di casa. Una circostanza, questa, che se dovesse trovare conferma, getterebbe nuove e incombenti ombre su tutto l’operato dei giudici in quegli anni e che avvallerebbe di fatto l’ipotesi secondo cui Mani Pulite non fu altro che lo strumento di una “guerra” tra classi politiche, in un gioco di equilibri e disequilibri indecenti, alleanze e “fratellanze” indicibili.

A questo riguardo, è impossibile non ricordare il percorso del protagonista indiscusso dell’epoca, l’ex premier Silvio Berlusconi, che in quegli anni si trasformava da rampante imprenditore a politico e, successivamente, nel ’94, premier, con Forza Italia. Una vittoria che, a detta del leader del Grande Oriente Democratico, Gioele Magaldi, fu ottenuta grazie alla sua attività massonica. Stando a quanto ha rivelato l’uomo in un’intervista, infatti, Berlusconi era entrato nella loggia P2 nel 1978; dall’82 al ’90, poi, rimase alla “corte” del Gran Maestro Armando Corona. “Successivamente, ha ritenuto di farsi una loggia segreta e sopranazionale autonoma”, ha spiegato il Maestro.

Uno dei nomi utilizzati per questa officina era ‘loggia del Drago” e fu proprio questa a rivelarsi essenziale per “costruire il consenso sociale e politico che ha condotto alla vittoria elettorale del ‘94”: “Dell’Utri e altri fratelli della cerchia massonica di Villa San Martino hanno girato la penisola in lungo e in largo, come proconsoli massonici di Berlusconi, intessendo accordi con la maggioranza delle logge del Belpaese in favore della neonata Forza Italia”, ha aggiunto  Magaldi. “In anni successivi, le relazioni massoniche dell’autoproclamatosi Maestro venerabile di Arcore gli hanno consentito di risollevarsi in momenti di particolare difficoltà”, fino all’arrivo di Monti, che lo stesso Maestro non ha esitato a definire un “fratello”.

Se la passione per l’esoterico del Cavaliere non è mai stata un mistero –e basterebbe osservare gli oggetti con cui l’ex premier ha sempre arredato le proprie residenze, arricchendole di simboli massonici ove fosse possibile- dall’altra, l’esistenza di una loggia propria è quantomeno disarmante. Non solo: a detta di Magaldi, lo scandalo che investì il leader di Forza Italia nel 2010 con la scoperta della cosiddetta P3, adibita tra l’altro a pilotare sentenze e far pressioni sui magistrati, era solo la punta dell’iceberg. Ad ogni modo, “P3” è un termine inventato dai media, in relazione alla P2, in cui il Cavaliere militava assieme a molti altri nomi noti. Tra questi, oltre il suo attuale “nemico” De Benedetti, vi era anche l’ex “barone rosso” Eugenio Jannelli. Questi, mancato nel 2005, fu parlamentare tra le schiere del Pci, grande amico del Napolitano attuale Capo di Stato. 

Massoneria che non tiene conto delle ideologie politiche, dunque, ma che raduna tutti, siano di destra o di sinistra. E Napolitano stesso potrebbe non rappresentare un’eccezione. Nel libro di recente pubblicazione di Ferruccio Pinotti e Stefania Santachiara, “I panni sporchi della sinistra”, i due giornalisti si soffermano sulla possibilità che il Presidente della Repubblica sia infatti un fratello massone.

Per confermare la loro ipotesi, hanno intervistato un prestigioso avvocato, definito di “altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd”. Questi ha spiegato ai due come “già il padre di Giorgio Napolitano”, Giovanni, fosse “stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea”.

Proprio il padre avrebbe trasmesso al futuro Capo di Stato la passione per la simbologia e la fratellanza. E, a rafforzare questa convinzione di appartenenza alla massoneria, la fonte ricorda l’ambiente in cui crebbe Napolitano: suo padre era legatissimo a Giovanni Amendola“padre di Giorgio, storico dirigente del Pci e figura fondamentale per la crescita intellettuale e politica dell’attuale presidente della Repubblica”.

“Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all’esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell’alveo di quella francese”, ha illustrato la fonte. “Per molti aspetti Napolitano è assimilabile a Mitterrand, che era anche lui massone. Si può stabilire un parallelismo tra i due: la visione della république è la stessa, laica ma anche simbolica. L’appartenenza massonica di Napolitano è molto diversa da quella di Ciampi, fa riferimento a mondi molto più ampi. Ciampi inoltre è un cattolico. Napolitano si muove in un contesto più vasto”. Il tutto senza voler ricordare le numerose testimonianze di solidarietà che Raffi, attuale maestro della loggia Grande Oriente d’Italia, ha manifestato al Presidente. O di quando, nel ’78, il futuro Capo di Stato tenne un ciclo di conferenze a Chatam House, a Londra. Uno dei principali centri di potere, anche massonico, del mondo.

Quasi a voler sminuire le scottanti rivelazioni del libro di Pinotti e Santachiara, pochi giorni dopo la pubblicazione, il Venerdì di Repubblica –edito dal De Benedetti sopraccitato- mandò in stampa un lungo articolo sull’inquilino del Quirinale, nel quale si sottolineava, positivamente, l’attenzione che gli Usa riservarono a Napolitano. Nel ritratto offerto dall’articolo, l’attuale Presidente della Repubblica ne usciva come il vero garante dell’alleanza tra gli States e l’Italia. 

La stessa alleanza, tra l’altro, che fu essenziale nella realizzazione di Gladio nel nostro paese, a cui collaborarono apparati statali deviati, mafia e l’immancabile Gelli. Il quale torna a collegarsi a Napolitano nel libro di Pinotti: nel ’98, scrive il giornalista, “i servizi segreti avevano avvisato il Viminale delle capacità di fuga” del faccendiere “durante la sua detenzione nel carcere svizzero di Champ Dollon”. Nonostante ciò, nel maggio dello stesso anno, “il Viminale guidato da Napolitano non riesce a evitare la fuga all’estero del capo della P2 Licio Gelli dopo l’ennesima condanna per il crac dell’Ambrosiano. Nonostante le ingenti risorse informative del ministero dell’Interno, il Venerabile lascia l’Italia indisturbato”. 

Si parla dello stesso Napolitano chiamato a testimoniare nell’ambito del processo sulla trattativa Stato-mafia, in corso a Palermo. Qui dovrà render conto di una comunicazione del suo consigliere giuridico, Loris D’Ambrosio, il quale gli esternava i timori di esser stato usato come scudo per “indicibili accordi”. Non potrà, invece, esser ascoltato in merito alla sua conversazione con Nicola Mancino, ora imputato e considerato, secondo il pentito Brusca, il “destinatario del papello” di Riina. E’ importante sottolineare come, nel 2009, Mancino fosse vicepresidente del Csm. E come, nello stesso anno, pubblicò su un giornale massonico, “Il pensiero mazziniano”, un editoriale, rinvenibile grazie all’archivio online del sito ufficiale del Grande Oriente d’Italia. Nello stesso periodo, ovviamente, Napolitano era Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Di fatto, in quegli anni, due simpatizzanti della massoneria presedevano il più importante organo giudiziario.

Una magistratura che Berlusconi, in più occasioni, non ha esitato a definire politicizzata. Critiche durissime, talvolta vergognose, nei confronti, soprattutto, della corrente MD, chiaramente di sinistra. Frangia di cui faceva parte, ai tempi, anche Alberto Maritati. Fu lui, nel ’94, ad interrogare il “re” della sanità pugliese, Francesco Cavallari, che, in quell’occasione, dichiarò: “Non nascondo che in una circostanza particolare ho dato un contributo di 20 milioni al Partito Comunista. 

D’Alema è venuto a cena a casa mia e alla fine della cena io spontaneamente mi permisi di dire, poiché eravamo alla campagna elettorale del 1985, che volevo dare un contributo al Pci”. Nonostante l’ammissione, Maritati archiviò il processo D’Alema nel 1995 per decorrenza dei termini di prescrizione, seppur lo stesso politico avesse dichiarato di aver ricevuto illegalmente un finanziamento per il Partito Comunista. Nel ’99, il colpo di scena: Maritati si candidò per volontà di D’Alema e, fino al 2013 è rimasto senatore tra le schiere del Pd. Sorte simile si verificò con Di Pietro: finito il tempo di Mani Pulite, il magistrato simbolo della lotta alla  corruzione appese la toga al chiodo e, nel giro di poco tempo, si trovò a coprire la carica di ministro dei Lavori pubblici nel governo Prodi e, successivamente, candidato al Mugello per volontà di D’Alema. Giusto per non sbagliarsi.