Brusca: “La mia vita dedicata a Cosa Nostra”. Ecco tutta la verità
Parla il pentito Giovanni Brusca durante il processo sula trattativa Stato-Mafia svelando la sua nascita e scesa in Cosa Nostra : “Ho sempre seguito le regole”.
“Da adolescente portavo i viveri al latitante Leoluca Bagarella, poi la mia partecipazione in cosa nostra è stato sempre un crescendo. Sono stato affiliato formalmente nel ’75 prima dell’omicidio del colonnello Russo al quale ho partecipato. La mia ‘combinazione’ ha seguito le regole tradizionali del rito dell’affiliazione: hanno bruciato la santina, Riina mi ha punto il dito. Lui era il mio padrino. Mi hanno insegnato che prima veniva Cosa nostra, poi il resto. Io questa regola l’ho seguita”. Comincia raccontando la sua carriera criminale Giovanni Brusca, il pentito che sta deponendo al processo sulla trattativa Stato-mafia in trasferta a Milano proprio per la testimonianza al dibattimento del collaboratore di giustizia.
Brusca è teste, ma anche imputato nel procedimento in cui è accusato di minaccia a corpo politico dello Stato. Stessa imputazione per gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, per i boss Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e l’ex politico Marcello Dell’Utri.
Risponde invece di falsa testimonianza l’ex ministro Dc Nicola Mancino, mentre Massimo Ciancimino è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il pentito sta parlando della gestione di Cosa nostra da parte di Riina e del ruolo del boss Bernardo Provenzano. “Perseguivano obiettivi comuni”, ha detto riferendosi alla guerra di mafia e all’eliminazione dei nemici di Cosa nostra.
“Riina disse ‘devono morire tutti’ “. “Nel corso di una riunione, nel ’91 – racconta Brusca -, Totò Riina disse che dovevano morire tutti, che si voleva vendicare, che i politicanti lo stavano tradendo. Fece i nomi di Falcone, che era un suo chiodo fisso, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli, di Purpura. Disse ‘gli dobbiamo rompere le corna’. Tutti ascoltavano in silenzio. Per amore o per timore”. Mentre Falcone e Borsellino andavano eliminati in quanto nemici dei clan, secondo Brusca i politici come l’eurodeputato Salvo Lima e l’ex ministro Calogero Mannino, dovevano pagare il non avere fatto gli interessi di Cosa nostra.
“Mannino, ad esempio – spiega – doveva morire perché non aveva aggiustato, tramite il notaio Ferraro, il processo per l’omicidio del capitano Basile. Riina mi diede l’ordine di ucciderlo e io chiesi tempo per studiarne le abitudini”. “Si parlò anche di Andreotti – aggiunge Brusca – ma non nel senso di ammazzarlo, bensì di non farlo diventare presidente della Repubblica. Politicamente c’era tutta la volontà di metterlo in difficoltà”. “Per l’eliminazione di Martelli, invece, che era concreta – prosegue – facemmo dei piani veri. Mandai degli uomini a studiarne le mosse”. Brusca nega che si fosse mai parlato, invece, della volontà di ammazzare l’ex ministro Dc Vincenzo Scotti.
“La priorità degli omicidi – afferma – la decideva Riina. Ad esempio si cominciò con Lima perché si vociferava delle aspirazioni di Andreotti alla presidenza della Repubblica e noi sapevamo che con quel delitto avremmo condizionato quella vicenda. Per questo si decise di ammazzarlo allora: in realtà nella lista di Cosa nostra Falcone e Borsellino venivano prima”.
La strage di Capaci. “La strage di Capaci – rivela il mafioso – fu accelerata per influire sulla nomina del presidente della Repubblica”. Brusca racconta che il commando inizialmente investito dell’incarico di uccidere Falcone avrebbe dovuto agire quando il giudice era a Roma, “poi – aggiunge – vedendo che perdevano tempo si rivolse a me e diede a me il compito”. “Riina e Provenzano avevano divergenze di vedute non sull’uccidere Falcone, ma sulle modalità. – dice Brusca – Provenzano mostrò la volontà di ammazzarlo fuori dalla Sicilia e Riina lo trattò a pesci in faccia e gli disse: ‘io lo devo uccidere qua’”. “Riina voleva essere sicuro di riuscire nell’attentato – spiega – infatti mi disse di impiegare 1000 chili di esplosivo”.
“Ho detto tutta verità dopo l’incontro con Rita Borsellino”. “Decisi di dire anche quel che avevo fino ad allora taciuto dopo un incontro con la sorella del giudice Borsellino, Rita, che mi chiese di sapere tutta la verità sulla morte di suo fratello”. Spiega Brusca raccontando cosa lo indusse a fare, anni dopo l’avvio della collaborazione, il nome di Marcello Dell’Utri. Il collaboratore racconta solo in un secondo momento del tentativo di contattare Dell’Utri tramite il boss Vittorio Mangano per ottenere benefici per i detenuti. Brusca sta rispondendo alle domande dell’aggiunto Vittorio Teresi che ha ripercorso la travagliate fasi della collaborazioni dell’ex capomafia e la recente indagine per estorsione aperta a suo carico. Brusca si è ripetutamente commosso parlando delle sue conversazioni con la sorella del magistrato assassinato.
“Per Riina papello finì da Mancino”. “Circa 20 giorni dopo l’attentato a Giovanni Falcone – afferma Brusca – , Totò Riina mi disse ‘si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello così. Era contentissimo. Riina non mi disse a chi aveva dato il papello ma mi fece capire che alla fine era andato a finire a Mancino”.
Secondo il pentito, Riina, dunque, gli avrebbe fatto capire che alcuni esponenti delle istituzioni, dopo gli omicidi dell’eurodeputato Salvo Lima e del giudice Giovanni Falcone, avrebbero chiesto al padrino di Corleone in cambio di cosa avrebbe fermato la stagione delle stragi. E Riina avrebbe risposto consegnando il papello, il documento con le richieste di Cosa nostra allo Stato. “Parlando della strategia stragista – ha aggiunto – Bagarella mi disse di andare avanti. Provenzano era perplesso e chiese come l’avrebbe giustificato con gli altri. Bagarella provocatoriamente rispose: ‘ti metti un cartello con scritto: non so niente'”.