CASO PARMALAT/ Gli ultimi anni prima del crac: Fausto Tonna, Luciano Del soldato & co.
Nel corso degli anni ’90 la situazione non migliora, ma Tanzi comincia a farsi più furbo: comincia a creare, con i suoi collaboratori strettissimi, una rete di società offshore tra i Caraibi, il Delaware e le isole Cayman per occultare il buco miliardario. Perno di questa attività l’ex direttore finanziario Fausto Tonna, anche lui, chiaramente, indagato e condannato in attesa di sentenza di Cassazione.
Secondo gli inquirenti di Parma, Fausto Tonna “forniva il fondamentale supporto ideativo, organizzativo e, almeno fino al marzo 2003, attuativo della maggior parte delle attività illecite svolte dal gruppo”. Un ruolo centrale il suo fino al marzo del 2003, mese nel quale si dimette per via di un bond da 300 milioni. Quando si diffonde la voce di questa nuova emissione in Borsa, prontamente Tanzi si affretta a negare. Ma oramai la frittata è fatta e dopo alcuni giorni il bond si rimaterializza finché la Parmalat non si trova costretta ad ufficializzarlo. Tonna allora si fa da parte, ma soltanto per modo di dire: diventa consigliere personale del presidente Tanzi e continua a gestire le due casseforti di famiglia, la Coloniale e la Sata.
Ma torniamo alla sua attività da direttore finanziario. Suo braccio destro è Luciano Del Soldato, responsabile della pianificazione e del controllo. È a lui che facevano capo i due contabili Bocchi e Pessina che eseguivano le falsificazioni su suo ordine. È davvero eloquente quanto dichiarato agli inquirenti proprio da Gianfranco Bocchi a tal proposito: “Nel 1993 sono stato chiamato a collaborare con Del Soldato per fare il bilancio della Parmalat Spa ed il consolidato. All’inizio effettuavo normali registrazioni, anche se intuivo che alcune di esse erano anomale. Tuttavia non avevo ancora la consapevolezza della situazione, che cominciai a maturare solo successivamente quando mi venne chiesto di predisporre dei contratti palesemente fittizi, e giustificati, da Tonna o Del Soldato, per coprire perdite ovvero per sistemare i bilanci”. Ma Bocchi va oltre, precisando anche i rapporti contrattuali tra Parmalat e le società concessionarie del latte: in pratica venivano eseguiti falsi contratti di vendita, da cui tuttavia emergevano ricavi inesistentiche comunque i dirigenti trascrivevano a bilancio. Bolle di sapone dunque. E che fine facevano i finti crediti? Qui entrano in gioco le società offshore: questi crediti fittizi, infatti, passavano a Bonlat e Camfield – le due maggiori società offshore facenti capo a Tanzi – e il cerchio si chiudeva. Camfield era al centro di un colossale, ma inesistente commercio di latte in polvere con Cuba; Bonlat, invece, con sede alle Cayman, era stata concepita come una sorta di “discarica” di tutta la falsa contabilità del gruppo.
E, sebbene tutto questo sia emerso nel 2003, è già dall’inizio del 2002 che la Procura di Parma comincia a tenere sott’occhio la multinazionale e i suoi bilanci, scoprendo anche importanti retroscena la cui rilevanza, probabilmente, non è stata pienamente compresa. Capiamo perché. In quel periodo le Fiamme Gialle smascherano un’operazione molto sospetta: un credito da Parmalat a Parmatour di 11,8 miliardi di lire poi svanito nelle pieghe dei bilanci. Probabilmente la Procura aveva trovato il bandolo della matassa, ma – come detto – non venne attribuita a quell’operazione la giusta importanza. Ci si dedicò soltanto al riscontro dell’evasione fiscale. E invece la questione era molto più grave: Parmatour, infatti, appartiene sì alla famiglia Tanzi, ma non al gruppo Parmalat che, sappiamo, è quotato in Borsa. E il finanziamento a terzi, nel caso specifico da Parmalat a Parmatour, è vietato per legge. Nel corso del controllo, dunque, i militari trovarono l’anomalia. E non è tutto. Dell’operazione oggi non c’è traccia né nei libri sociali né nei bilanci delle società. Anzi. Nelle carte della Parmalat la Guardia di Finanza trovò un’annotazione che ha dell’incredibile: “rinuncia al credito”. In sostanza Tanzi & co. hanno creduto bene di camuffare la continua emorragia di denaro con la “storiella” di prestiti senza ritorno.
Nonostante queste “furbate”, però è plausibile che anche la Procura abbia commesso alcuni errori di superficialità. Nessuno compie la più elementare delle verifiche: stabilire se quei miliardi siano effettivamente usciti dalle casse di Parmalat. Non succede nulla di nulla. Nemmeno in Procura: il pm non informa, a quanto risulta, né la Consob né la Banca d’Italia. Ci si limita a contestare una presunta evasione fiscale. Sebbene la stessa GdF avesse compreso l’entità del problema. In una nota si legge che il credito è sparito: “una rinuncia di tale entità non è stata oggetto di specifica trattazione né in sede di delibere assembleari, né in sede di stesura della nota integrativa al bilancio d’esercizio e comunque la parte non ha esibito alcun documento che riporti con precisione l’ammontare del credito vantato e di quello rinunciato”.
Passa un anno e mezzo e, finalmente, il 17 dicembre 2003 la goccia che fece traboccare il vaso. Il 17 dicembre 2003 la Bank of America fa sapere che il conto corrente intestato a Bonlat presso la sede di New York non esiste. Non c’è e non c’è mai stato. Pian piano emergono di tutti quei fondi fittizi, quei crediti inesistenti. E in mezzo a questa finanza creativa un’unica certezza: nelle casse della multinazionale nemmeno un centesimo, sebbene alcuni (Tanzi, Tonna, Del Soldato, i contabili e, secondo gli inquirenti, anche le banche) sapessero. Sebbene migliaia e migliaia di risparmiatori ignari comprarono dalle banche milioni di bond targati Collecchio senza sapere a che cosa andavano incontro.
Segni tangibili dello “scricchiolamento” avvengono già nei primi giorni di quel dicembre. Alla direzione finanziaria della Parmalat giunge una telefonata del gruppo bancario Sanpaolo Imi: “Ma che succede, avete fatto rientrare i soldi tutti insieme? Che cosa ci volete fare con 3,7 miliardi di euro?”, si chiedono. Ecco uno dei tanti misteri ancora in parte irrisolti nella bancarotta: se la liquidità proprio non c’era, come detto, da dove venivano quei soldi?
E se la liquidità custodita alle Cayman, invece, esisteva realmente (quella della Bonlat, per intenderci), perché mai farla rientrare tutta insieme? Nella vicenda, allora, interviene lo stesso Tanzi che contatta personalmente la banca. Per il 4 dicembre viene fissato un incontro fra lo stesso Tanzi e due top manager del gruppo bancario, proprio per stabilire la natura di quei 3,7 miliardi di euro. Tuttavia l’incontro non avverrà mai: con poche ore di anticipo il patron annulla l’appuntamento.
Quanto detto sinora potrebbe sembrare del tutto superficiale e secondario, ma non è così. Nel corso di uno dei suoi interrogatori lo stesso Tanzi ha raccontato un episodio strettamente legato alla vicenda dei 3,7 miliardi di euro. Secondo l’imprenditore di Collecchio a disporre di tre miliardi per tentare di salvare il gruppo sarebbe stato un imprenditore, un “cavaliere bianco” come l’hanno definito molti. Stiamo parlando di Luigi Antonio Manieri.