Il 2 luglio 1993 il contingente di pace italiano a Mogadiscio – composto da Carabinieri del Tuscania, Lagunari del San Marco, Parà della Folgore e Incursori del Col Moschin – è attaccato nei pressi di un pastificio abbandonato, durante una vera e propria battaglia.
Tre militari italiani cadono vittime dell’imboscata.
Ecco la vera storia di quella tragedia, ricostruita nel reportage “Checkpoint Pasta – 1993: battaglia a Mogadiscio” realizzato da La Storia Siamo Noi.
La missione dell’Onu UNOSOM II
Nei primi anni Novanta la Somalia è nel caos, consumata da dieci anni di guerra civile. Migliaia di morti e oltre un milione di profughi spingono l’ONU a promuovere la più grande operazione umanitaria della storia.
Gli USA offrono l’appoggio militare e sbarcano a Mogadiscio a capo di una forza multinazionale impegnata a garantire la distribuzione degli aiuti umanitari alla popolazione.
La missione internazionale di pace, stabilita con la risoluzione 814 delle Nazioni Unite del marzo 1993, si chiama United Nations Operations in Somalia: UNOSOM II.
La partecipazione italiana alla missione, approvata in Parlamento il 10 dicembre 1992 a larga maggioranza, porta il nome di ‘Ibis”.
Il contingente italiano è il più numeroso dopo quello degli Stato Uniti, e schiera i propri reparti migliori: Carabinieri del Tuscania, Lagunari del San Marco, Parà della Folgore, Incursori del Col Moschin; truppe scelte e ben addestrate capaci di reggere il confronto con qualsiasi altro esercito. Insieme a loro arrivano in Somalia anche centinaia di soldati di leva.
Il rapporto dell’Italia con la Somalia è storicamente molto stretto e nei primi mesi della missione gli italiani si fanno apprezzare sia per l’assistenza alla popolazione che per l’impegno nel controllo delle strade e nella repressione del banditismo, conquistando così la fiducia dei somali.
Il checkpoint ‘Pasta’
La più importante via di comunicazione della Somalia è la via Imperiale, una grande arteria costruita dagli italiani negli anni Trenta, che collega Mogadiscio ad Addis Abbeba; lungo il suo percorso sono disseminati numerosi check point presidiati dai soldati italiani: Banca, Obelisco, Nazionale, Demonio, Ferro, Pasta.
Il Checkpoint ‘Pasta’, situato all’incrocio tra la via Imperiale e la via XXI Ottobre prende il nome da un vecchio pastificio abbandonato che si trova al centro del quartiere di Haliwa, il cuore del territorio controllato da Mohamed Farrah Aidid, il capo militare che nel 1991 ha rovesciato il lungo regime di Siad Barre (iniziato nel 1969).

All’arrivo del contingente ONU Aidid e Alì Mahdi sono i due signori della guerra che si contendono il controllo delle strade di Mogadiscio e il giro d’affari legato agli aiuti umanitari.
Il 22 giugno, proprio in quel quartiere le forze americane erano penetrate senza preavviso nella zona del pastificio; l’operazione aveva scatenato una reazione furiosa da parte della popolazione e il contingente italiano aveva fatto grande fatica per ristabilire la calma.
2 luglio 1993: il giorno della battaglia
Alle 5.00 del mattino del 2 luglio parte una grande operazione di rastrellamento.
Sono coinvolti in tutto, oltre a 400 soldati somali, 550 soldati articolati in due raggruppamenti, il gruppo Bravo e il gruppo Alfa, con 35 veicoli blindati e meccanizzati, 8 blindo pesanti Centauro, 7 carri armati e 2 elicotteri, uno spiegamento imponente di mezzi corazzati, ma che non presenta pericoli apparenti.
I militari, coadiuvati nella lingua dai soldati somali, iniziano a perquisire le abitazioni in cerca di armi. Trovano poco e niente, finché, in un casolare abbandonato viene trovato un cospicuo deposito di armi. Tre persone vengono arrestate. La tensione inizia a salire.
A un certo punto i poliziotti somali, che hanno un ruolo fondamentale nel tranquillizzare i locali quando gli italiani entrano nelle loro case, spariscono.
Improvvisamente qualcosa si rompe tra la popolazione somala e il contingente italiano.
Gli abitanti del quartiere scendono in strada e iniziano ad inveire contro gli italiani. Vengono erette le prime barricate e parte una pesante sassaiola.
Per riprendere il controllo del territorio il generale Loi ordina azioni di fuoco intimidatorio.
Ma poi, visto l’aggravarsi degli scontri, egli ritiene che non sia il caso di irrigidirsi per un centinaio di metri in più e ordina quindi il ripiegamento. I mezzi fanno dietrofront e si dirigono nuovamente verso la base. All’improvviso però la colonna italiana viene bloccata da nuove barricate. Le truppe italiane si ritrovano sotto un fuoco incrociato; i miliziani si nascondono tra la folla, nelle case, sui tetti. Si innesca un vero e proprio combattimento.

L’incursore Stefano Paolicchi viene colpito da una raffica di mitragliatrice. Trasportato in ospedale muore poche ore dopo. Aveva trent’anni.
Il generale Loi ordina al comandante del raggruppamento Bravo, che ha quasi raggiunto la sua destinazione, di rientrare. Il comandante Pierluigi Torrelli, con un dispositivo in parte rimodulato, si dirige nuovamente verso il chekpoint Pasta, ma incontra subito nuovi sbarramenti.
I combattimenti diventano sempre più violenti, per le strade di Mogadiscio si sta scatenando l’inferno. Sulla via Imperiale, superato il pastificio, uno dei carri armati italiani viene colpito da razzo anti carro, che squarcia la corazza, ferisce molti soldati all’interno e uccide il parà Pierluigi Baccaro, di 21 anni.
Il comandante Torrelli, ferito gravemente all’addome, riesce ad aprire la botola e urla a tutti quanti di uscire all’esterno. I soldati si ritrovano in strada, sotto il fuoco che viene da ogni parte e cercano di mettere in salvo se stessi e i compagni colpiti.
Gianfranco Paglia viene colpito mentre tenta di portare in salvo i suoi compagni feriti. Tre colpi lo raggiungono, viene trasportato all’ospedale americano allestito a Mogadiscio e lì viene operato. Avrà salva la vita ma perderà l’uso delle gambe.
Alle 10 e 50 il raggruppamento Bravo richiede l’intervento degli elicotteri per prelevare i feriti. Gli elicotteri tentano l’atterraggio ma vengono indirizzate verso di essi pesanti azioni di fuoco, che rendono impossibile la manovra; si decide quindi di trasportare i feriti con i mezzi di terra.
‘Sono due ore di inferno – racconta il generale Loi -. Sparavano da tutte le parti, con tutti i tipi di armi’.
Gli italiani passano al contrattacco; due raggruppamenti di incursori del Col Moschin setacciano le stradine attorno al checkpoint Pasta, scovando i miliziani che sparano ed eliminandoli.
Ma i miliziani somali combattono senza esclusione di colpi, si impossessano di un mezzo italiano e da lì sparano colpendo uno dei due elicotteri italiani che volano sopra la zona della battaglia. Il comandante dell’altro elicottero, Gianni Adami, chiede l’autorizzazione a far fuoco con un missile anticarro. L’autorizzazione arriva. Il mezzo preso dai miliziani somali viene distrutto.
Intanto, da un altro checkpoint, arrivano i rinforzi. Per evitare l’arteria principale dove era in corso il combattimento, i mezzi italiani scelgono di percorre le stradine secondarie. E’ una scelta fatale; dopo pochi metri cadono vittima di un’imboscata e si trovano senza via di scampo. Al comando di uno di quei blindati c’è il sottotenente dei Lancieri di Montebello, Andrea Millevoi, 21 anni, che muore in quella circostanza.
A questo punto il generale Loi, temendo altri attacchi, ordina la smobilitazione di tutti i checkpoint di Mogadiscio che vengono sostituiti con pattuglie mobili. Il colonnello Torelli, a capo del raggruppamento Bravo, comincia a rientrare verso la base, con la copertura del fuoco degli elicotteri americani, a cui nel frattempo il comando italiano ha chiesto aiuto.

Una reazione inspiegabile
Ma una domanda rimane: perché ci fu questa reazione così violenta da parte dei somali?
Per molti la reazione fu addirittura inspiegabile, un fulmine a ciel sereno, dati i rapporti tutto sommato buoni che intercorrevano sino ad allora tra italiani e gente del luogo. Probabilmente durante il rastrellamento la brigata italiana aveva scoperto qualcosa che non doveva scoprire, qualcosa di strategico per Aidid, o un deposito di armi o la sua stessa persona.
Intervistato a Mogadiscio, Abdi Alem Jum Alem, della milizia del generale Aidid, ricostruisce così la sua versione sui fatti di quel giorno:
All’inizio i rapporti erano buoni, gli italiani distribuivano cibo, controllavano le strade, ma quella mattina insieme a loro c’erano 400 uomini di Alì Mahdi travestiti da poliziotti. Non potevamo sopportare questo affronto e abbiamo deciso di dare a tutti una lezione.
I contrasti Italia-ONU
Il 5 luglio 1993, all’aeroporto di Ciampino, arrivano i feretri dei soldati italiani morti in Somalia durante la missione di pace. A Mogadiscio, dopo la tensione arriva la rabbia; i soldati vogliono riprendersi il territorio che è stato tolto loro, i vertici militari si interrogano su come avviare una nuova strategia.
Il generale Loi è d’accordo sulla necessità di riprendere le posizioni perdute:
Dovevamo necessariamente riprendere il controllo del Checkpoint Pasta, in primo luogo per una questione operativa, e poi anche per una questione ‘di faccia’: non potevamo sottostare alle decisione dei miliziani.
Anche il comando dell’ONU impartisce lo stesso comando: riprendere ad ogni costo, per via militare, il controllo di ‘Pasta’.
Ma il generale Loi avverte il ministro della Difesa italiano Fabbri che tale operazione implica perdite di vite umane molto elevate. E così il governo italiano, presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, si dissocia dalla missione e decide di muoversi autonomamente rispetto all’ONU.
Mentre la forza internazionale vorrebbe un intervento armato, il generale Loi è convinto che sia possibile riprendersi il checkpoint Pasta senza sparare un solo colpo ci vuole solo un po’ più di tempo e bisogna avviare delle operazioni di intelligence militare, tese a ricucire i rapporti con la popolazione; bisogna cercare delle figure di mediazione.
Un uomo che in questa fase ha un ruolo importante nel tessere la tela delle relazioni è il maggiore Angelo Passafiume.
I contrasti con le Nazioni Unite sono evidenti. Mentre l’ammiraglio Howe, inviato speciale di Butros Ghali in Somalia, chiede una ritorsione e una rappresaglia per l’uccisione di tre caschi blu, il generale Loi, interprete della politica di Roma che chiede gradualismo e dialogo, cerca di frenare, rivendicando il fatto che i tre soldati erano prima di tutto italiani.

La riconquista del checkpoint “Pasta”
Internamente alla Somalia, intanto, qualcosa si muove. Una parte dei miliziani di Aidid è scontenta, si sente strumentalizzata ai fini di giochi di potere interni. In quel contrasto ci si può incuneare, trovare uno spazio di manovra ‘diplomatica’.
La trattativa tra gli italiani e gli uomini di Aidid scatena feroci polemiche; il comando italiano viene accusato di essere sceso a patti con quegli stessi ribelli che pochi giorni prima hanno massacrato i giovani soldati. Ciò nonostante il generale Loi continua per la sua strada e sembra con successo: i militari italiani, dopo una serie di trattative con i miliziani, riconquistano il checkpoint Pasta.
‘La vittoria del buon senso e della ragione sulla forza bruta’, così lo stesso generale Loi, a caldo, commenta la riconquista di quella posizione.
Le critiche americane e le accuse di aver trattato con Aidid
Ma gli americani criticano fortemente la decisione italiana.
Robert Gosende, ambasciatore USA in Somalia in quegli anni, la considera:
Un errore, perché fece pensare che fosse possibile scendere a patti con i signori della guerra, con questi banditi, e che se ne potesse ricavare qualcosa di buono.
L’atteggiamento dei vertici militari italiani, sempre più autonomo dal comando americano della forza multinazionale, scatena reazione durissime anche all’interno dell’ONU. Il comando italiano viene accusato di aver stretto degli accordi segreti con il generale Aidid.
Il segretario generale dell’ONU Butros Ghali chiede la testa del generale Loi. Da Roma il governo prende tempo, poi dispone il ritiro del contingente italiano a Balad, fuori Mogadiscio; decisione che suona come una nuova sfida alle Nazioni Unite.
Il ministro della Difesa Fabio Fabbri, ricorda che gli italiani:
Non avevano un rappresentante nel comando che decideva le azioni militari. Venivano comandati e utilizzati senza poter partecipare alla pianificazione delle azioni e alla scelta delle modalità con cui usare, se necessario, anche la forza.
Gli italiani ritenevano che si dovesse dare la priorità alle azioni umanitarie e di riconciliazione e che anche nell’uso della forza militare occorreva procedere con molto equilibrio.
E ricorda come la riconquista di ‘Pasta’ fu una grande soddisfazione perché dimostrò agli americani e all’ONU che si poteva raggiungere l’obiettivo senza inutili spargimenti di sangue.
L’ambasciatore Gosende non è dello stesso avviso:
Molti sono stati sviati dal termine missione ‘umanitaria’, pensavano che andassimo in Somalia solo a portare cibo a gente che moriva di fame, senza sapere che quando si inizia a fare una cosa del genere ci si scontra inevitabilmente con gli interessi economici dei signori della guerra e il loro potere di controllare il flusso di aiuti.
Il mistero della cattura di Aidid
A quanto raccontano i testimoni, prima della tragedia del 2 luglio, era stata preparata dagli italiani un’operazione segreta per arrestare proprio il generale Aidid.
Il generale Loi:
Arrivò al comando un segnale su un certo itinerario che in un dato giorno Aidid avrebbe percorso. Gli italiani montano immediatamente un’operazione che aveva come obiettivo la cattura del generale e che si poteva raggiungere anche senza spargimento di sangue.
Il ministro Fabbri racconta che, inaspettatamente, il comando ONU, una volta informato della possibilità della missione, invitò gli italiani a non procedere alla cattura del dittatore. L’ambasciatore USA in Somalia, Robert Gosende, giustifica così la cautela:
La cosa non mi sorprende del tutto, dato che nessuno aveva pensato a cosa fare con Aidid e come e chi avrebbe dovuto giudicarlo. Non eravamo pronti. Non dimentichiamo che in Somalia non c’erano prigioni né polizia né tribunali, nessuno strumento insomma per combattere l’anarchia. Non credo che Los Angeles potrebbe operare in simili condizioni, figuriamoci Mogadiscio. Alla missione UNOSOM non era stato attribuito il potere necessario per prendere simili decisioni.
Tuttavia, pochi giorni dopo la riconquista del checkpoint da parte degli italiani, la presenza del generale Aidid viene segnalata in una casa di Mogadiscio. Elicotteri della Quick Reaction Force americana sferrano un attacco massiccio che provoca decine di morti: Aidid rimane illeso.
Il 30 settembre del 1993, sotto la pressione dell’opinione pubblica, preoccupata per l’escalation militare in Somalia di una missione che si sta rivelando disastrosa, il presidente Bill Clinton annuncia il ritiro dalla Somalia. Il 18 ottobre anche il ministro italiano Fabbri dispone il ritiro del contingente. L’ONU ammette che la missione in Somalia è fallita.