FRANCESCO DINI/ Ecco chi è il lobbista al soldo di De Benedetti, sfiorato dall’affaire Turbogas
E’ Stefano Zurlo, sul Giornale, a rivelare chi è Francesco Dini, figlio di Claudio, l’architetto che con la sua matita ha contribuito a tracciare i palazzi di Milano 2 ma anche il presidente della Metropolitana milanese risucchiato da Mani pulite. Francesco, nello zaino una laurea in Tecniche della comunicazione, si forma nell’ambiente Fininvest, alla scuola di Aldo Brancher e di Fedele Confalonieri.
«Francescooo, Francescooo». Nicola Latorre, senatore del Pd e parlamentare autorevole e potente, si sgola ma Francesco non sente. Sarà per il traffico, che dalle parti di via del Tritone nel cuore di Roma, ha sempre un volume moto alto. Ma Francesco Dini non è un personaggio abituato a voltarsi. Se qualcuno vuole parlargli, non gli resta che inseguirlo. E infatti l’autorevole Latorre si mette a rincorrerlo in mezzo alla strada. È il febbraio 2010 e questa istantanea romana ci racconta molto bene lo spessore e la forza di un manager perfettamente inserito nella stanza dei bottoni. Per qualcuno, per chi lo ha incrociato solo di sfuggita, il quarantasettenne Francesco Dini è un lobbista, insomma un testa d’ariete del gruppo De Benedetti nella stanze della politica. Ma in realtà l’uomo è molto, molto di più.
Una specie di braccio destro dell’Ingegnere: «La sua ombra», lo definisce un colletto bianco che lo conosce molto bene e che non vuole essere citato in prima persona. «Consideri – spiega al Giornale -che quando gli amministratori delegati del gruppo Cir scrivono comunicazioni importanti le mandano per conoscenza anche a lui».
Così, seguire le sue mosse, le sue frequentazioni, la mappa delle sue relazioni, aiuta a capire un pezzo dell’Italia che si muove dietro le quinte. Sì, perché Dini ha una biografia apparentemente piatta come un’ostia, va molto di rado sui giornali, anche quelli di famiglia, insomma è un perfetto sconosciuto per l’opinione pubblica. E questo dato, naturalmente, aumenta il suo potere. Silenzio e discrezione gli sono compagni e favoriscono la tessitura della sua complessa tela.
Una ragnatela sorprendente e illuminante perché i suoi rapporti spaziano da destra a sinistra. Sul lato rosso dell’emiciclo ha rapporti di confidenza con la coppia formata da Massimo D’Alema e da Nicola Latorre, sull’altro versante aveva familiarità con il ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani, che ne stima intelligenza e duttilità. Ma ultimamente i due si sarebbero raffreddati perché Dini si è speso molto e ha fatto fuoco e fiamme anche contro il governo per sostenere Sorgenia, la società della galassia Cir che si occupa di energia. Ma l’asse più interessante è quello con Italo Bocchino, il numero due di Futuro e libertà, con cui Dini vanta un’antica consuetudine e con cui, forse, ha condiviso recenti scelte strategiche.
Quando si studia l’evoluzione di Fli, la rottura con Berlusconi, l’uscita dalla maggioranza e una nuova, ambigua collocazione sul crinale scivoloso fra destra e sinistra, non si deve dimenticare anche questo link personale fatto persino di lunghe vacanze trascorse insieme con le relative famiglie sulla Costiera amalfitana: se Dini è vicinissimo all’Ingegnere e Bocchino è il vice di Fini, allora si può capire come l’amicizia possa aver facilitato la contaminazione fra i giornali del gruppo De Benedetti e i futuristi.
Il partito dell’Ingegnere, che si esprime attraverso la Repubblica e l’Espresso, vede di buon occhio l’avventura dei finiani e la crepa che Fli ha aperto nella coalizione del Pdl. Dini è uno degli artefici di questa svolta carica di conseguenze per la politica italiana e per i suoi assetti di potere. Curioso: anche Dini, segue un itinerario che lo porta dalla cittadella berlusconiana alla corte dell’Ingegnere.
Francesco è figlio di Claudio Dini, l’architetto che con la sua matita ha contribuito a tracciare i palazzi di Milano 2 ma anche il presidente della Metropolitana milanese risucchiato da Mani pulite. Il figlio, nello zaino una laurea in Tecniche della comunicazione, si forma nell’ambiente Fininvest, alla scuola di Aldo Brancher e di Fedele Confalonieri. Una leggenda metropolitana lo vorrebbe anche assistente di Gianni Letta. Ma la notizia è falsa come la presenza dei coccodrilli bianchi nel sottosuolo di New York.
Poi qualcosa si rompe. Dini litiga furiosamente e se ne va, sbattendo la porta. L’Ingegnere, da sempre il nemico del Cavaliere, lo accoglie a braccia aperte. È il 1999. La carriera è rapidissima. Dini diventa subito direttore delle relazioni istituzionali di Cir, la holding del gruppo; nel marzo 2004 è direttore degli Affari generali del gruppo. Di fatto, è sempre più vicino all’Ingegnere. E entra in tutti, o quasi, i consigli d’amministrazione delle società in cui è ramificata la galassia De Benedetti. Così è consigliere del gruppo editoriale L’Espresso, di Audiradio, di Audiweb, di Energia, di Energia Holding, e di Energia Molise. Insomma, è ovunque. Ma compare poco. Pochissimo. Quasi mai. Non ne ha bisogno. I giornali non gli servono. Semmai sono uno specchio delle sue strategie.
Le agenzie di stampa lo snobbano. Lo sfiorano solo perché resta impigliato nell’inchiesta per la realizzazione delle centrale Turbogas di Termoli in cui sono coinvolti anche il presidente del Molise Michele Iorio e l’assessore regionale Gianfranco Vitagliano. Dini, intercettato in un valzer frenetico di telefonate, parla di politica, di soldi, di assunzioni secondo una logica evergreen: quella clientelare. «Gianfranco – spiega al suo interlocutore – è il papà di quella centrale». Poi si sfoga perché la squadra di calcio del Termoli, sponsorizzata dal gruppo, è un pozzo senza fondo: «Questi sono sempre a chiedere. Mi hanno chiesto delle cose folli… Questi sono come i drogati, se gli dai 100mila, poi ne spendono 150mila». Infine il capitolo assunzioni, toccato con una persona di Termoli: «Parlatene con il vostro sindaco, lui ha fatto molto, parlatene con lui perché diciamo che il 90 per cento della gente è su… su suo suggerimento».
La centrale di Termoli – e non solo quella – porta problemi. Sorgenia, il quarto operatore nazionale di energia dopo Eni, Enel e Edison, un colosso da 2,3 miliardi di euro, ha qualche difficoltà. Difficoltà crescenti. Difficoltà che aumentano esponenzialmente negli ultimi tempi. Dini prende di mira il decreto energia e il decreto sulle fonti rinnovabili, cerca di modificare in corsa i testi, fa circolare fra i big del settore una lettera che vorrebbe spedire a Romani in cui tenta di riaprire i giochi e di delegittimare Assoelettrica: «Auspichiamo che sia estesa la partecipazione al tavolo di consultazione di tutte le principali aziende impegnate nello sviluppo della cosiddetta green economy e non sia quindi limitata dalla presenza di associazioni di categoria».
La lettera non parte e viene cestinata, Dini perde il round ma continua a tessere la sua infaticabile tela. Perfettamente bipartisan. Anzi, capace di sintonizzarsi come un sismografo con le scosse del palazzo. È vicino a Cesare Cursi, l’ex democristiano poi aennino e oggi pidiellino presidente della commissione industria del Senato. Ma stringe sempre più le sue liason con Fli, sponda amica dei giornali dell’Ingegnere. La sua assistente, Roberta Romiti, entra per qualche tempo alla Camera con un tesserino che la indica come collaboratrice dell’onorevole Chiara Moroni, amica come Bocchino di Dini e tesoriere del gruppo. Poi la situazione si evolve e la Romiti viene addirittura «stabilizzata» con un tesserino del gruppo Fli. Niente male – e niente di illegittimo, sia chiaro – per una dipendente di Sorgenia.
Lui frequenta l’Agcom, denuncia l’atteggiamento di Google che non paga pedaggio per la pubblicità e segue anche il delicatissimo problema della numerazione sul telecomando al momento del passaggio al digitale terrestre. Dicono che Rodolfo De Benedetti, il figlio dell’Ingegnere, non abbia gradito il suo strapotere. E abbia provato a ridimensionarlo, sostituendolo alle riunioni fra i signori dell’energia. Poi, però, Dini è tornato al suo posto. E alla giostra delle sue riunioni. Più saldo che mai. A fianco dell’Ingegnere. E suo ambasciatore, fra il Fli e il Pd, nell’eterno tentativo di fabbricare il dopo Berlusconi.