Quel giorno ero in Sicilia. Mentre Borsellino scriveva la sua ultima lettera.
Quel giorno ero in Sicilia. Come tutte le stagioni estive della mia infanzia e adolescenza correvo da mia nonna Maria. Una donna dura e decisa, amorevole e premurosa. Come la Sicilia. Terra di contraddizioni e di colori. La terra più colorata d’Italia. Il giallo del grano abbronzato dal sole. L’arancio degli agrumeti. L’azzurro del mare. Il verde dei fichi d’india. E il nero, il nero della terra incendiata dai pazzi. Il rosso del sangue dei morti ammazzati. E il bianco del silenzio degli innocenti.
Porto quella terra nelle mie vene, conosco la grammatica mafiosa e i suoi silenzi. Quel giorno ero in Sicilia. E quando la televisione interruppe tutti i programmi per dare l’assurda notizia mia nonna corse a chiamarmi. Ero in strada, come facevo sempre a Grammichele, un paesino in provincia di Catania, famoso nel mondo per la sua piazza esagonale. Ero con gli amici, a rubare la sabbia dei vicini e scappare in bicicletta. Mia nonna, che conosceva i miei percorsi da “bandito”, mi disse: “Curr’, ‘ca ‘mmazzanu a Borsellino…” Con voce vibrante, piena di dolore e paura.
Certo che sapevo chi era Borsellino. In Sicilia mafia e antimafia sono protagonisti inscindibili dello stesso film. E un siciliano quel film, quella trama, la vive ancor prima di esser nato. La porta dentro. È un cordone ombelicale che ti tiene legato, anch’esso, a quella terra.
Borsellino era ‘u giudice Borsellino. E bastavano queste parole per far riempire d’orgoglio il petto ai siciliani onesti. E ai disonesti anche, perché un avversario così – secondo le logiche mafiose – fa aguzzare l’ingegno, rende migliori, porta Cosa Nostra in un altro livello. E così fu, purtroppo.
Calò il silenzio davanti alla televisione. Un silenzio diverso da quello mafioso ma non per questo meno greve e drammatico. Silenzio di paura, di rassegnazione. Era finita. Con la morte di Borsellino era finita. Caponnetto interpretò al meglio il pensiero di quanti stavano dalla parte di Paolo e Giovanni.
Lo sapevamo bene. Come sapevamo che a qualche chilometro da Grammichele, nelle campagne attorno al paese, si nascondeva Nitto Santapaola, il boss di Catania arrestato di lì a poco a Mazzarrone. Tutti sapevano di Santapaola. Lo Stato sapeva di Santapaola.
Lo Stato ha ucciso Borsellino. Che sia chiaro questo, al di là delle – troppo spesso inutili – risultanze processuali. Perché la verità non è solo quella scritta dai giudici, come si vuol far credere in Italia. La verità è un valore troppo prezioso perché sia affidato esclusivamente alla coscienza di uomini che hanno gli stessi pregi e difetti del pescivendolo al mercato. La verità è quella che si vede in strada, quella che si percepisce dagli sguardi e dalle mani della gente. La verità è quella che ti raccontano, con parole da decifrare, quando vai a comprare il formaggio dai pecorai sui monti.
La verità è che via D’Amelio è una strage di Stato. Perché Paolo Borsellino stava indagando sulla trattativa, come abbiamo scritto qualche giorno fa. E perché questo è quello che emerge dall’ultima lettera del giudice.
Quel giorno ero in Sicilia. E mentre Borsellino scriveva la sua ultima lettera io dormivo un sonno tranquillo. Quel giorno una parte di me ha deciso di fare il giornalista.
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