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TESTAMENTO BIOLOGICO/ Il Bio Business della lobby farmaceutica

Come ha ricordato ieri Il Fatto Quotidiano, la settimana scorsa si è chiusa con “una circolare dei ministri Maroni, Fazio e Sacconi che definisce “illegittimi” i registri comunali, istituiti dallo scorso anno in settantadue città, per raccogliere le volontà dei cittadini sul fine vita, in assenza di una legge nazionale che lo regoli.” Non si può morire in pace. Perchè? Cosa c’è dietro il Bio Business del testamento biologico?

Dietro i laceranti conflitti di coscienza che dilaniano le formazioni politiche anche al loro interno, sul testamento biologico si gioca una partita che vede in campo autentiche holding economiche della formazione e della medicina. Da un lato all’altro degli schieramenti in campo, partendo dall’Opus Dei di Calabrò fino alla Fondazione Veronesi, ecco chi sono i protagonisti del dibattito e le corazzate imprenditoriali al seguito.

Questa è la vera storia di Raffaele Calabrò. Questa è la vera storia di un medico prestato alla politica per affermare in parlamento, nel nome del popolo italiano, i principi di quel cattolicesimo elitario su cui fonda la sua potenza economica sovranazionale un moloch della santità come l’Opus Dei; per tradurre in leggi dello Stato le ferree prescrizioni di Josemaria Escrivà de Balaguer sulla vita e sulla morte di uomini e donne nel mondo. Se infatti sono universalmente note le vocazioni a flagellazione e penitenza di una deputata come Paola Binetti (del PD), quasi nessuno finora aveva messo in stretta correlazione il relatore della legge sul testamento biologico e senatore del Pdl Raffaele Calabrò con la sua posizione di assoluto e storico vertice all’interno, appunto, dell’Opus Dei.

Sebbene siano stati finora tanti, nell’Italia repubblicana, i camici bianchi passati con disinvoltura dalle sale operatorie alla bouvette del Transatlantico, quello di Calabrò rappresenta insomma un caso particolare, in qualche modo emblematico: non solo per la stretta osservanza opusdeista della sua famiglia da generazioni, ma anche per il battesimo politico del senatore, avvenuto in Campania sotto l’ala protettiva di un suo grande amico: l’altro medico napoletano convertito definitivamente alla politica Paolo Cirino Pomicino.


UN POMICINO PER AMICO
Succedeva una quindicina di anni fa, per la precisione nel 1995, quando Forza Italia che nasceva dalle ceneri della vecchia Dc cercava volti nuovi all’interno della società civile e ‘O Ministro si rimboccava le maniche negli hotel del lungomare partenopeo per reclutare candidature, pescando nell’ala conservatrice e possibilmente facoltosa della città. Arriva così per la prima volta al Consiglio regionale della Campania il cardiologo Calabrò, sostenuto dal consenso di amici influenti in area Opus Dei, come i magistrati partenopei di stretta osservanza Maria Lidia De Luca e Raffaele Raimondi, marito e moglie, o come gli altri ferventi Bruno Brancaccio e suo cognato Bruno Capaldo, big dell’edilizia.

Sono i tempi della giunta di destra guidata da Antonio Rastrelli di Alleanza nazionale: dopo un braccio di ferro con l’esponente del partito di Gianfranco Fini, Antonio Cantalamessa, il medico tutto Forza Italia e chiesa la spunta e va ad occupare la poltrona di assessore alla Sanità, che manterrà per un paio d’anni. Saldamente insediata al vertice della sua segreteria politica in assessorato è in quegli anni Letizia Balsamo.

Sorella del costruttore Isidoro (alla guida della Balsamo Costruzioni Generali, altra leader della ricostruzione post terremoto in Campania, così come le imprese Brancaccio e Capaldo), ma soprattutto moglie di quell’ingegner Vincenzo Maria Greco che nella stagione giudiziaria di Tangentopoli finì in galera – dopo la lunga latitanza in Sudamerica – per reati connessi alla sua attività di proconsole massimo degli affari targati Paolo Cirino Pomicino.  Un suggello ideale, dunque, la presenza della Balsamo nello staff, per un’amicizia antica come quella fra Calabrò e Cirino Pomicino. 

Mani pulite è andata come sappiamo: tutti “innocenti”, fra patteggiamenti e prescrizioni. Mai sfiorato da quelle indagini, Calabrò penso bene comunque di abbandonare la poltrona bollente della Sanità. Lo ritroviamo pochi anni dopo, nel ‘98, come presidente del Consiglio regionale. Poi la lunga pausa di riflessione. L’uscita dalla scena politica termina nel 2006, quando buona parte dell’Opus si butta “a sinistra”: Paola Binetti entra in Parlamento con la Margherita e lo stesso Calabrò(insieme a numerosi fedelisimi, fra cui il dermatologo partenopeo e consigliere comunale Mario Delfino) passa nelle fila del partito di Francesco Rutelli.

Un feeling che per lui non dura a lungo: a maggio 2007 il definitivo approdo fra le braccia del Cavaliere, che lo fa eleggere per la prima volta in senato, dalla cui commissione Sanità parte oggi la legge Calabrò sul testamento biologico. Che prevede di considerare cibo e idratazione come prestazioni non rifiutabili da parte dell’ammalato, a differenza degli emendamenti proposti dal Partito Democratico. Linea assoluta di demarcazione lungo questo crinale legislativo, il caso della giovane Eluana Englaro, dolorosamente concluso dalla morte della giovane, in stato vegetativo da 17 anni, per lo stop a cibo e acqua deciso dalla famiglia e confermato – ma solo in quanto libertà di scelta – dalla Cassazione.

 

MORTE E AFFARI
Se l’Opus Dei – ed anche, come vedremo, lo stesso Raffaele Calabrò – incarnano alla perfezione la difficile arte di coniugare elevazioni dell’anima a business imprenditoriali in odor di fede, sul versante opposto si schierano, non meno agguerrite, quelle holding in bilico fra medicina e Stato che, a partire dalla Fondazione di Umberto Veronesi, in nome del laicismo spinto su questioni laceranti come il testamento biologico stanno già da tempo raccogliendo denaro e donazioni da far invidia ad un colosso bancario.

Comunque la pensiate sulle disposizioni di fine vita, allora, benvenuti nello scontro fra titani dell’economia che vede in campo da un lato l’Opus Dei e, sul versante opposto, giganti della medicina come Veronesi e come il dominus incontrastato dei trapianti di organi Ignazio Marino.

LA PREVALENZA DELL’IPE
Partiamo dalla prima formazione in campo. E andiamo a ricostruire l’impero economico che, zitti zitti, gli apparati riconducibili a Calabrò hanno messo in piedi nel corso degli ultimi venti anni e passa. Non che si tratti di un modello originale: quella delle residenze universitarie e dei collegi – rigidamente suddivisi in strutture maschili e femminili, tanto la sana promiscuità fra sessi fa ancora paura a questa ala conservatrice del cattolicesimo -è’ una autentica specialità della casa, finalizzata ad allevare le giovani generazioni di professionisti secondo il verbo di Escrivà, proprio come avviene nelle centinaia di istituti dell’Opus Dei attivi in ogni parte dei cinque continenti. 

A Napoli c’è, prima di tutto, l’IPE, acronimo di Istituto Per Ricerche ed Attività Educative, quartier generale in Riviera di Chiaia, che a sua volta coordina i destini di tre residenze: Monterone (quella esclusivamente maschile), Villalta (per le fanciulle), entrambe in quartieri bene del capoluogo partenopeo, più la recente Residenza del Levante, a Bari. Lo standard ricettivo, di tipo alberghiero medio-alto, prevede fra l’altro camere singole con servizi, pasti serviti a tavola, pulizia delle camere giornaliera, palestre attrezzate, biblioteca, giardini e posto auto. Le rette medie (ma si prevede anche un ristretto numero di borse di studio annuali) si aggirano intorno ai 600 euro al mese per ogni studente ospite, esclusi i costi di corsi formativi e stages che si tengono regolarmente ogni anno. La capienza ricettiva è di circa 40 posti per ciascuna residenza. Fatti due conti, siamo intorno al milione di euro come giro d’affari annuo in entrata.

E che non si tratti di iniziative finanziate solo con capitali privati lo dimostra il fatto che l’IPE rientra fra gli appena 14 Collegi Universitari legalmente riconosciuti in Italia e destinatari ogni anno di apposite disposizioni nella Finanziaria a titolo di contributi dello Stato e sgravi fiscali.

Una prassi che era stata messa in discussione solo nel 2007 sotto il governo di centrosinistra, quando l’allora ministro dell’Università Fabio Mussi si permise di decretare l’accantonamento di quelle risorse in considerazione dello stato precario di una ricerca che ancora oggi, in Italia, è la più penalizzata rispetto agli altri Paesi occidentali proprio per l’esiguità degli stanziamenti in favore degli atenei pubblici. 

Apriti cielo: il grido di dolore fu lanciato dalla “Conferenza permanente dei collegi universitari legalmente riconosciuti” (l’ombrello fondato nel 1997 per riunire i magnifici 14), che aprì sulla questione addirittura una raccolta di firme. Un provvedimento “sventato” grazie alla rapida caduta del governo Prodi e al ritorno a Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi, con i suoi ministri schierati in campo per il finanziamento a scuole, università e collegi privati. Del resto, era stata Letizia Moratti, durante la sua permanenza al vertice del dicastero, ad elargire somme consistenti all’Ipe: 560 milioni di vecchie lire nel 1999 ed altri 500 e passa nel 2000. 

Dieci anni dopo, esercizio finanziario 2009, uno fra i punti maggiormente discussi della manovra è proprio il fatto che risulta «aumentato di 4 milioni di euro lo stanziamento per il contributo a favore dei collegi universitari legalmente riconosciuti per lo svolgimento di attività culturale e per le funzioni delegate alla Sardegna in materia di diritto allo studio», e tutto questo mentre «al capitolo 23, Istruzione universitaria – lamenta l’Anief, Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori – spettano 8.549,3 milioni di euro, con una riduzione di 133,5 milioni rispetto al bilancio 2008». 
La particolare attenzione per i collegi della Sardegna (quanti consensi ha portato al Pdl in vista della consultazione per le regionali, conclusasi puntualmente con l’affermazione della destra?) non fa comunque eccezione rispetto alle inclinazioni dello stesso premier Silvio Berlusconi, da giovane formatosi alla Torrescalla (vedi box di pagina 6), residenza universitaria milanese fra le più elitarie dell’Opus Dei, dove fra l’altro nacque e si consolidò l’imperituro sodalizio con Marcello Dell’Utri.

COTUGNO IN CAMPO
A Napoli intanto vanno avanti le iniziative complementari avviate dall’Ipe. Destinate a studenti (vedi il corso di giornalismo per sole donne appena portato a termine nella Residenza Villalta, o quello ancor più recente su ”Shipping e finanza d’impresasponsorizzato dal San Paolo Banco di Napoli), ma non solo. Si segnala infatti nel panorama confuso della medicina made in Naples la discesa in campo dell’Istituto di Calabrò per dispensare formazione ai camici bianchi dell’Ospedale Cotugno, uno fra i massimi presidi sanitari in Italia per la cura delle malattie infettive. Destinato al nobile intento di «saldare etica e formazione del personale con strutture e cambiamenti istituzionali», il corso si articola in quattro giornale, fra marzo ed aprile, nei locali dell’Ipe, a Chiaia, e può ospitare fino a 50 partecipanti fra medici, psicologi e tecnici di fascia dirigente, previo versamento di 200 euro a testa.

Organizzato congiuntamente fra Cotugno ed Ipe, il corso vede come suoi presidenti lo stesso Calabrò ed il direttore generale dell’Azienda Ospedaliera Antonio Giordano, mentre fra i docenti spiccano due personalità del Campus Biomedico, l’università privata dell’Opus Dei a Roma: sono Paolo Arullani (che ne e’ anche il rettore) e Victor Tamboni. Una partnership scientifico-religiosa, dunque, ma che, come sempre avviene in questi casi, presenta anche notevoli risvolti economici. 

«Le somme raccolte fra i corsisti – fanno notare in ambienti dell’ospedale – non basteranno di certo a coprire le spese per onorari e soggiorni dei numerosi docenti». «Il Cotugno farebbe meglio – sibila un altro medico – ad occuparsi delle dure reprimenda che proprio sulla gestione contabile del nosocomio sono appena piovute da parte della Corte dei Conti». Il riferimento è alla pronuncia emessa dall’organo di controllo il 30 settembre 2008, quando i giudici presieduti da Mario Sancetta si sono espressi apertamente su una «gestione aziendale degli ultimi esercizi caratterizzata da una evidente sofferenza di cassa, con oltre 22 milioni di euro di perdite accumulate nell’ultimo quadriennio».

 

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