RIFORMA LAVORO/ Cosa nasconde davvero? Gli aiuti alle imprese e le false promesse ai precari
In questi giorni non si fa altro che parlare di articolo 18. Un parafulmine che vanifica tutto il resto. A cominciare da una domanda: cosa prevede nei fatti questa riforma? Ne abbiamo parlato con il Professore di Diritto del Lavoro Franco Scarpelli. Quello che ne viene fuori è una realtà scottante, sfuggita ai più: sebbene il Governo abbia più volte dichiarato di voler combattere la precarietà, una norma che è passata nel silenzio generale la avvantaggia, la rende una situazione di fatto. Più di quanto già non sia. Con un grande vantaggio – ancora – per le imprese.
di Carmine Gazzanni
Mario Monti, alcuni giorni fa, aveva detto che “se il Paese non è pronto il Governo potrebbe lasciare” perché quello che si sta facendo, sul tema lavoro, è un “buon lavoro” perché in linea con quanto ci dice l’Europa. Ma è davvero così? Pare proprio di no. Ne abbiamo parlato con il Professore di Diritto del lavoro all’Università degli studi di Milano-Bicocca, Franco Scarpelli.
Partiamo da un dato di fatto. Una riforma del lavoro in Italia dovrebbe innanzitutto far fronte ad una situazione patologica nel nostro Paese: la precarietà. I dati, a tal proposito, sono infatti tutt’altro che confortanti. A fronte di più di 14 milioni di lavoratori subordinati a tempo indeterminato, i lavoratori atipici subordinati (a tempo determinato, a chiamata, in somministrazione, apprendistato) sono quasi tre milioni (il 18,49%). Il lavoro atipico non subordinato conta più di 2 milioni e mezzo di persone (Co.co.co. e co.co.pro su tutti). Il lavoro atipico, dunque, riguarda, in totale, ben 5.395.451 persone. Sul lavoro subordinato stabile il totale di quello “atipico” rappresenta il 36,5%, mentre sul totale degli occupati (dipendenti e indipendenti) risulta essere il 23,5%. E, di questi, molti sono giovani. Non a caso, l’ultima rilevazione Istat parla di un tasso di disoccupazione giovanile (giovani di età compresa tra i 18 e i 24 anni) del 26,5% (13,7 in Francia; 19,6 in Gran Bretagna).
Come si è pensato, allora, a prescindere dalle discussioni sull’articolo 18, di risolvere questa vera metastasi del nostro Paese? “Per quanto riguarda la precarietà – ci dice il Professor Scarpelli – innanzitutto bisognerebbe distinguere diversi problemi. Un problema, ad esempio, è il ricorso all’utilizzo scorretto di forme contrattuali, soprattutto di lavoro non subordinato come i contratti a progetto o le cosiddette partite iva, ovvero i contratti di collaborazione professionale, o ancora gli stages”. Questi, infatti – è bene precisarlo – sono contratti che non sono di lavoro subordinato, corrispondono ad altre condizioni lavorative e sociali. Il problema è che negli ultimi anni, come Infiltrato.it ha documento con un’inchiesta, si è diffuso l’uso elusivo di questi rapporti per nascondervi lavoro subordinato. “Su questo terreno – chiarisce Scarpelli – la manovra qualcosa fa. Le misure possono a riguardo essere giudicate positivamente per via di un rafforzamento di tecniche antielusive che già erano state messe in campo dal legislatore negli anni precedenti e che ora vengono rafforzate”.
Tuttavia, i forti punti di domanda sorgono su altro. Ovvero, sul lavoro subordinato. Su questo terreno avrebbe dovuto agire il governo, dato che “vengono impiegati dalle imprese, ma anche dalle pubbliche amministrazioni, centinaia di migliaia di lavoratori”. Stiamo parlando, in pratica, di quell’enorme sacca di lavoratori ”che vivono condizioni di precariato, rapporti di lavoro non stabili, quelli che vengono chiamati in linguaggio sociologico bad jobs, ovvero lavori sui quali c’è scarso investimento, con scarso contenuto professionale, rispetto ai quali i fattori negativi sono più d’uno: sono lavori mal pagati e con scarso investimento sulla formazione”. Il rischio sociale per costoro è molto alto: il lavoratore precario, infatti, si trova oggi in una condizione di marginalità, scarsi redditi, scarsa opportunità di progredire verso un lavoro stabile.
Ed è su questo terreno che il governo, pur palesando un coraggioso intervento, in realtà non ha agito. O meglio: ha agito in senso contrario a quanto dichiarato. Favorendo le imprese e rendendo la precarietà ancora più stabile di quanto già oggi non lo sia. “Il segno ufficiale della manovra – ci dice infatti il Professor Scarpelli – è un segno di contrasto alla precarietà. Si dice che si è voluto contrastare la cattiva flessibilità a favore di una buona flessibilità. Peccato che un po’ a sorpresa – e questa è una cosa che in pochissimi hanno notato – è entrata una regola, quella che prevede che il primo contratto a termine non debba essere giustificato dall’impresa, quella che in pratica toglie la causale del primo contratto a termine, che è una cosa che sostanzialmente liberalizza il primo contratto a termine”.
Si legge, infatti, nel testo della riforma: “Nella logica di contrastare non l’utilizzo del contratto a tempo determinato in sé, ma l’uso ripetuto e reiterato per assolvere ad esigenze a cui dovrebbe rispondere il contratto a tempo indeterminato, viene previsto che il primo contratto a termine – intendendosi per tale quello stipulato tra un certo lavoratore e una certa impresa per qualunque tipo di mansione – non debba più essere giustificato attraverso la specificazione della causale di cui all’art.1 del Dlgs 368/01”. Peccato, però, che liberalizzando nei fatti il primo contratto a termine, si offre uno spaventoso aiuto alle imprese. In linea con quanto hanno cercato di fare anche i passati governi di centrodestra: “sono dieci anni – ci dice ancora Scarpelli – che il governo di centrodestra vuole far saltare il vincolo della causale, svantaggioso per le imprese, dicendo che ci sono tanti contenziosi sui contratti a termine. È vero, ci sono tanti contenziosi. Ma in questo modo non c’è alcun controllo, è in atto una liberalizzazione totale”.
In pratica, dunque, si liberalizza a favore delle imprese, senza alcun criterio di compensazione per il lavoratore. Si liberalizza una situazione normativa che invece era vincolante per le imprese. Cosa, questa, che non ci è stata chiesta nemmeno dall’Europa, come sottolinea Scarpelli: “si va in senso contrario a quello che l’Europa ci indica con le direttive, si fa quindi una manovra contraria alle indicazioni europee; questa è una grave contraddizione rispetto a quello che c’è stato detto per mesi”.
Non solo. L’eliminazione della causale al primo contratto è valida anche per il lavoro interinale: “accanto a questa disposizione ce n’è un’altra che non è presente formalmente nella manovra, ma che è presente nel decreto legislativo di attuazione della direttiva sulla fornitura di lavoro temporaneo, cioè sul lavoro interinale, che ha previsto anche lì la possibilità di ricorrere ad una modifica dell’attuale legge con la possibilità di ricorrere al lavoro interinale anche lì senza causale limitata ai cosiddetti soggetti svantaggiati”. Ma cosa si intende per “soggetti svantaggiati”? Tutto e di più: “è una categoria amplissima in cui possono stare tantissimi lavoratori”.
Lotta al precariato, dunque, soltanto a parole. “Noi oggi – commenta il docente universitario – abbiamo una riforma che, in previsione, è a favore per le imprese che hanno acquisito degli spazi di flessibilità libera, non controllata, non compensata da alcun vincolo che dal punto di vista sociale è molto negativa. Il rischio molto concreto è quello che si determinano delle sacche di lavoro marginale con sempre maggiore difficoltà per questi lavoratori a passare a lavoro standard”. I lavoratori, in pratica, saranno condannati alla marginalità permanente.
Ancora. Una denuncia della Nidil-Cgil (il ramo sindacale della Cgil dei cosiddetti lavoratori atipici) rivela un’altra falla decisiva nella riforma. Il ministro Fornero, infatti, per incentivare i contratti a tempo indeterminato ha previsto, dal 2018, un aumento delle aliquote contributive per i collaboratori, che passeranno dal 27,72% attuale al 33%. A detta del governo questo aumento, a carico delle imprese, incoraggerà le stesse ad assumere a tempo indeterminato. Non è così, però, per Filomena Trizio, leader della Nidil-Cgil che, invece, rivela che l’aumento “sarà a carico dei lavoratori”. L’effetto, dunque, è esattamente contrario a quello desiderato. Un esempio per capirci: poniamo che un’impresa paghi mille euro un collaboratore a progetto, a cui al netto arrivano 900 euro dopo il pagamento degli oneri; il prezzo del lavoro, come quello di altri fattori economici, raramente si può determinare “dall’alto”, con legge, e il rischio è che, alzando l’onere contributivo a carico dell’impresa, il datore di lavoro semplicemente decida di mantenere immutato il salario lordo e, quindi, molto semplicemente farà arrivare in tasca allo stesso identico dipendente precario meno soldi. Purtroppo, per il lavoratore precario il posto di lavoro non è una scelta, è una necessità; ed è realistico che accetti anche una (ulteriore) decurtazione al suo salario.
Dopo le balle sull’articolo 18, documentate da Infiltrato.it, altre balle sulla lotta al precariato. Insomma, quella che ad una lettura superficiale sembrerebbe una riforma che agevoli una crescita occupazionale, in realtà finisce con l’essere (ancora una volta) un aiuto sottobanco alle imprese stesse. E tanti auguri per quella enorme sacca di lavoratori precari.